MATTATOIO n. 5 di Kurt Vonnegut
31.05.2016 17:39Difficile imbattersi in un romanzo come Mattatoio n.5 di Kurt Vonnegut e non rimanerne scossi. O con qualche segno tangibile del suo “passaggio” su e in noi.
Irriverente, critico, caustico, a tratti dissimulatore. Incosciente.
Il lettore diventa una pallina da ping pong nelle mani di Vonnegut, fidandosi dell’intelligenza e dell’astuzia stilistica, narrativa, di questo autore. E viene rimbalzato in qua e in là, non solo tra più contesti e ambienti della storia narrata, avanti ed indietro nel tempo, quindi tra situazioni reali ed altre di pura fantasia, ma anche tra risate ed amare constatazioni di dolore e sofferenza, tra ironia sferzante e inenarrabile realtà storica, autentica e vera, dissacratoria.
È con Billy Pilgrim, protagonista di questo racconto, che viaggiamo nel tempo: con lui che questa abilità l’ha imparata e riuscita a dominare. È lui che ci porta a diventare testimoni privilegiati di un fatto storico drammatico e devastante, spesso taciuto o messo in secondo piano rispetto ad altri eventi più famosi, come è stato il bombardamento della città di Dresda, avvenuto quasi alla fine del secondo conflitto mondiale, e che seppellì tra le sue macerie circa 135mila uomini. Lui, che l’ha “sentito” vibrare e tremare da dentro un vecchio mattatoio insieme ad altri suoi compagni, costretti in quel periodo ai lavori forzati, e che ne ha toccato le conseguenze, al termine, una volta uscito. Lui, che in questo caso diventa quasi un alterego dello stesso autore che quel massacro l’ha visto e vissuto veramente. Billy Pilgrim, giovane e spensierato americano, partito per la guerra con poche aspettative, ma anche sana incoscienza, ci alterna prospettive centrali a punti di vista obliqui, e da indigesti assunti di guerra, ci porta nello spazio in un pianeta sconosciuto, Tralfamadore, dove vivono appunto i tralfamadoriani, e dove si trova un’altra volta rinchiuso, dentro uno zoo, come “animale-alieno” esibito al pubblico. Allo stesso modo Vonnegut frammenta la narrazione in brevi paragrafi, e si allinea con l’andamento del pensiero del suo protagonista adottando per il lettore uno stile tanto iperbolico quanto necessariamente brillante, mai facile o semplicistico, come “parlare della guerra” potrebbe rischiare di essere.
Tra questi rimbalzi da pallina da ping pong non c’è un momento di stasi. E il ritmo è l’altra cifra importante di fruibilità massima di questo romanzo, si intende. Ma allora tutto procede quasi per inerzia: quando arriva la durezza, il magone, di certe “lezioni” sulla drammaticità di quella guerra (fu chiamata la “Crociata dei bambini”), vuoi continuare per andare oltre e cercare quel pezzo di ironia e spensieratezza, che in effetti arriva. Poi ti sembra di essere uscito troppo dagli schemi, di essere evaso da una realtà che non si può evitare, di voler restare con i tralfamadoriani, e Vonnegut fa fronte a questo tuo bisogno riportandoti a raccontarti della Storia.
Ed è bello così. Non c’è una fine, anche quando arrivi all’ultima pagina e all’ultima parola. Perché senti come di proseguire in questo crinale che attraversa di qua la realtà e di là la fantasia, la tua storia e i tuoi sogni, il presente e il passato, ancora per un po’ di tempo, nella vita di tutti i giorni. Cercando di mantenere l’equilibrio, o magari imparando a viaggiare nel tempo.