CINEMA 2015
Eccoci giunti, come ogni anno, alla consueta classifica di ciò che (in termini di opere) il cinema ha saputo offrirci, o non offrirci, dipende da come ci si pone a riguardo, in questo 2015. Si potrebbe fare anche un discorso generale, per esempio sottolineando la buona media qualitativa dei film usciti in sala, e di conseguenza l’arduo compito di sceglierne i 20 migliori; o notando la massiccia presenza del cinema americano, o comunque di produzione USA; o ancora apprezzando l’altrettanta “massiccia presenza” (ma evidentemente intesa in altro senso – come ingombrante, scomoda, fondamentale) di qualche opera d’avanguardia, proiettata verso il futuro, capace di rinnovare le istanze stesse del cinema, di donargli respiro e quindi vita: opere ferme perché incastonate in un tempo non loro, ma che muovono gli ingranaggi sotterranei di questa arte, ne modificano i circuiti di linguaggio, e le antenne di comunicazione. Si potrebbe fare. Ma lascio che sia la classifica a parlare per me, a redigere un bilancio di questo 2015, e a far capire che anno sia stato. Di quale Cinema, oggi, stiamo vivendo, come spettatori, come fruitori, come appassionati, come amanti, come esseri umani.
Prima, però, un paio di puntualizzazioni:
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Al solito, in classifica rientrano tutti i film usciti nelle sale dal 1 Gennaio 2015 al 31 Dicembre 2015. Non comprende però “riedizioni” (per esempio i capolavori di Miyazaki e Takahata, o Blade Runner).
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Nei primi 20 non troverete molti buoni titoli, che ora elencherò in puro ordine alfabetico qui di seguito, così per ampliare un po’ il raggio d’azione dei miei (spassionati) consigli:
AUTOMATA di Gabe Ibáñez. Thriller di fantascienza con Antonio Banderas, ambientato in un futuro post apocalittico, con cyborg e umani. C’è Asimov quindi, e già potrebbe sembrare tutto alquanto scontato, invece sorprende, per ordine, coerenza, e messaggio.
FURY di David Ayer. La Storia vera (di questo “famoso” carro armato immolato) aiuta; la guerra poi, si sa, è soggetto che sa catturare attenzioni e sprigionare emozioni sul grande schermo; il cast artistico è solido e amalgamato alla perfezione. Se il regista (nonché anche sceneggiatore in questo caso) sa come tenere tutto, senza perdersi, e sa come raccontarlo, il prodotto è sicuramente vincente. Se vi piace il genere non perdetelo: uno dei migliori film di guerra degli ultimi anni.
HEARTH OF THE SEA – LE ORIGINI DI MOBY DICK di Ron Howard. Affascinante, anche in questo caso, la vicenda che racconta, la leggenda della famosa balena bianca che sembra ispirò Melville a scrivere il suo romanzo. Ne imbastisce un’opera potentemente classica l’artigiano esperto Ron Howard: a volte, come accadeva già in Rush, ma forse anche con un piglio maggiore, ci si sposta dall’accademia, con un’attenzione maggiore all’inquadratura, ma solo quel tanto per cercare di restare dentro la modernità. Quanto basta, quanto chiediamo a questo autore, e a questo cinema, che piace proprio così com’è, classicamente impeccabile.
MON ROI di Maïwenn. Ci sono delle inquadrature finali, delle soggettive in dettaglio del volto di Vincent Cassel (che interpreta Georgio) che esplicitano e racchiudono felicemente il senso del film: è Tony (la bravissima Emmanuelle Bercot, premiata a Cannes) a guardare il volto del “suo Re”, e noi con lei, nonostante l’amore iniziale sia diventato ossessione, quindi sofferenza, quando si è scontrato con la implacabile realtà dei fatti. Vale la pena vivere l’amore quando sai che è evanescente come un’illusione? Questo è il quesito che pone Mon Roi. Ad ognuno la sua risposta, e la sua teoria. Io mi tengo quelle inquadrature, che indugiano a scoprire un volto, niente più, senza veli. Che solo lo sguardo dell’amore può saper togliere.
SHORT SKIN - I DOLORI DEL GIOVANE EDO di Duccio Chiarini. Uno dei film italiani più interessanti di questo anno. Un’opera prima, di coraggio, di impronta autoriale già ben decisa, definita. Piacevole, e promettente.
STAR WARS: EPISODIO VII – IL RISVEGLIO DELLA FORZA di J.J Abrams. Era il film più atteso. Forse il più atteso della recente storia cinematografica. Tutto questo carico di attesa pesava, potete immaginare quanto, sulle spalle di Abrams e di tutto il suo cast: non si poteva sbagliare film, nessuno lo avrebbe permesso. Nonostante la gravità del compito, il regista americano, degno erede dei grandi autori del cinema anni ’70, tra i quali proprio il George Lucas creatore di questa epopea della settima arte, riesce a confezionare un’opera importante, con momenti di grandissimo cinema. Qualcosa che non va qua e là c’è, l’epica dei capitoli originali resta sopita, ma l’universo non viene tradito, anzi: questo settimo episodio si pone proprio tra il passato e il presente. Rievoca con la risoluzione visiva delle immagini, con il montaggio, con alcune inquadrature, e soprattutto con i protagonisti storici, la prima trilogia; sta al passo con il cinema dei giorni nostri attraverso il ritmo più serrato, usando l’eroina (nuova protagonista delle serie fantasy del momento), o con inquadrature da spettacolarità dei moderni blockbuster. Ha studiato dai grandi, ne ha rielaborato i capolavori Abrams, e sa anche come si fa il cinema d’intrattenimento di qualità oggi. E tutto questo si vede. Io mi sono commosso, e sono contento di essere rientrato in questo magico Universo. Che è cinema. Puramente cinema.
STILL ALICE di Richard Glatzer, Wash Westmoreland. Prezioso. Still Alice è un’opera ambiziosa perché sussurra (come fa chi soffre) il dolore, la perdita, la malattia. Non indaga a fondo, ma proprio per questo spiazza ed è disarmante nella sua normalità, semplicità: tutto va come deve andare, raccontato con chiarezza, ma ovvia naturalezza, un decorso della malattia, il decadimento dei rapporti, del mondo intorno a sé, della persona che sei; un’ascesa verso l’essenziale, espresso nell’ultima parola che chiude il film. Amore. “Parla d’amore”, dice la protagonista interpretata da un’immensa Julianna Moore, riguardo ad uno scritto teatrale recitato dalla figlia, quella figlia più lontana da lei, dal suo mondo, e dal suo modo di concepire la vita. Così, ormai ridotta a niente, a dimenticare tutto, anche delle semplici parole, in un soffio dice la parola che non si dimentica, che resta al di là di tutto, sempre. Non è retorica, è semplice, quanto sempre spiazzante, verità. Narrata con discrezione, con armonia. Senza pigiare tasti precisi, senza pizzicare con forza determinate corde dell’animo. Noi spettatori stiamo con lei, la protagonista, con lei soffriamo, con lei ridiamo, con lei intuiamo, e con lei capiamo, e ci sentiamo essere umani. Unici. Perché amiamo.
THE IMITATION GAME di Morten Tyldum. Come per Fury, anche in questo caso, il primo aspetto che fa nascere interesse è quello storico: conoscere un’operazione così segreta e così determinante della Seconda Guerra Mondiale, è motivo di coinvolgimento a priori. Il film si apprezza poi per un’ottima costruzione nel suo genere, un thriller appassionante, ben oliato nei meccanismi narrativi, da conferirgli un ritmo fluido, scorrevole, mai zoppicante. La regia di Tyldum, autore già ampiamente apprezzato per un altro thriller, Headhunters, è pura accademia, tradotto: elegante messa in scena, conoscenza delle dinamiche del genere, e di quelle che muovono l’intrattenimento per lo spettatore. Ma The imitation game ha forse la sua maggior forza nella potenza espressiva di Cumberbatch, tra i migliori attori della modernità cinematografica. Svetta la sua interpretazione, nel dare vita ad un personaggio tanto geniale per il suo cervello, quanto fragile nell’animo. E il discorso alla fine precipita sempre lì: l’amore. Che muove le azioni umane, e dà soluzioni.
THE LOBSTER di Yorgos Lanthimos. È un film fantasy. Sembrerà strano, ma è così. Fantasy visionario, ma comunque fantasy, è strutturato così, è scritto rispettandone le linee base. The Lobster, che racconta un’umanità che non può sopportare più la vita da single, è perciò un’opera grottesca, esagerata, ironica: graffiante nella misura in cui il non senso di certe regole e leggi viene elevato, paradossalmente, a senso primario, giustificato, verosimile, a tratti comprensibile. The Lobster procede come quella che in matematica viene definita “dimostrazione per assurdo”. Ma infine, in quella emblematica scena finale, c’è scritto “CVD” (“come volevasi dimostrare”).
THE SALVATION di Kristian Levring. Ti piace il genere western? Allora recupera questo film. Non dirà molto di più di quanto già detto in merito, ma sicuramente nemmeno qualcosa di meno. Un classico del genere, che può solo appassionare.
TURNER di Mike Leigh. Questo film varrebbe a prescindere, solamente per l’interpretazione di Timothy Spall: scuola britannica e si vede. Ogni movimento è misurato, ogni respiro voluto al momento opportuno, in un bilanciamento perfetto di pantomima ed enunciazione scenica. Turner rivive grazie all’interpretazione di Spall, e con lui rivive la sua arte, la sua persona, tanto romantica nei dipinti, quanto “animalesca” nella vita. Un ritratto affascinante, dipinto con la professionalità e competenza ineccepibili di Leigh.
WOLF CREEK 2 – LA PREDA SEI TU di Greg Mclean. Uno dei due migliori horror della stagione (l’altro è tra i primi 20, si intende). Sequel degno del primo film, altrettanto degno nel suo genere, l’horror, che si sa, sforna film a iosa, e dei quali se ne salvano sempre pochi, come quando ti si bruciano la maggior parte dei biscotti. Questo film australiano di Mclean si regge su un personaggio imponente, il serial killer Mick Taylor, che cattura per istrionica presenza, e spietata crudeltà. L’horror, con tutte le sue derivazioni, tra momenti classici ed altri originali, si cuce intorno a questo protagonista, ed è proprio lui che ne scandisce i tempi, ne scrive le dinamiche, ne conferisce forza narrativa, suspense e terrore.
TOP 20 (prima parte)