DARK SHADOWS di Tim Burton

Io Tim Burton dal 2005 ad oggi l’ho perso di vista. Inutile che stiano a dirmi che con questo Dark Shadows sia tornato. Perché io l’autore di Edward Mani di Forbice e Big Fish, non lo vedo più da un pezzo. Da quel grazioso affresco gotico che è stato La Sposa Cadavere. Perso in opere che, seppur costruite molto bene, sono lontanissime dal suo stile come La Fabbrica di Cioccolato o Alice in Wonderland. O faziosi giochetti che il suo stile cercano di esaltarlo ma arrivano ad una conseguente saturazione, che sa di esibizionismo fine a se stesso, come Sweeney Todd. Dark Shadows, invece, non è un brutto film. Ma è un oggetto strano, troppo strano, che non si riesce ad inquadrare bene: un puzzle semplice, ma che non riesci a completare. E spazientito, lo abbandoni.
Parte bene. La regia di Burton, quasi per tutto il film, ma soprattutto nella prima parte è superlativa: soprattutto nella scelta delle inquadrature, cosa che poche volte è stata così evidente nelle sue opere. Il prologo è curato, mette in scena tutte le aspettative del film, e le dinamiche stilistiche. Barnabas Collins è figlio di una famiglia facoltosa inglese che, trasferitasi in America per ampliare i propri affari, riesce a creare una vera e propria cittadina che porta il suo nome. L’amore non corrisposto per la domestica Angelique, che poi si scoprirà essere una strega, bella e seducente come la sua interprete Eva Green, porterà all’uccisione dei suoi genitori e alla sua condanna a diventare vampiro e a vivere in eterno sottoterra dentro una bara. Tornerà dopo 200 anni dai suoi lontani parenti, per ridare lustro alla famiglia, destinata ad un’inesorabile decadenza. Lustro che Tim Burton non riesce a dare, almeno ancora in modo definitivo, alla sua carriera e a Johnny Depp, ormai confezionato nello stesso ruolo da anni, truccato al massimo e stuccante al limite. Funziona, però, la commedia che con il suo personaggio attraversa la storia, donandole un spirito comico che strappa più di qualche sana risata e che pone più di qualche pensiero (su tutte la scena con la M di McDonald’s, la prima cosa che Barnabas vede dopo essere ritornato dalla tomba).
Di fatto il film si costituisce di più generi, e più stili. L’horror, di pieno stampo hammeriano degli anni ’40 è una citazione stilistica intelligente, ma che rimane ancorata a quegli anni; e una rispolverata era d’obbligo. La telenovela, espressa nel sentimentalismo d’amore, da un lato passionale e violento, dall’altro puro ed eterno; che riecheggia con grandi classici della letteratura come Cime Tempestose della Bronte, o anche un Dracula di Bram Stoker: però...fin troppo cliché, troppo stereotipato e troppo poco “diverso”, come dice giustamente Giovanna Branca di Close Up, “se alle streghe ammalate d’amore vengono preferite le ragazze con gli occhi da cerbiatto non basterà coprire di cerone Johnny Depp per essere diversi.” Ma Burton fa un po’ di fatica a comporre il tutto, perché in fondo non supportato alla base da una storia che è di fatto poca cosa, che non è originale, che è ridondante nelle situazioni e ripetitiva nei continui ribaltamenti di fronte. Ma ci mette comunque del suo: tocchi di originalità e genialità, che fanno ancor più rimpiangere quel Burton partito e ancora non tornato. Come l’omaggio alla musica di quegli anni, condotto attraverso l’uso quasi integrale di musica diegetica e culminato con il cammeo di Alice Cooper. O l’omaggio, che sottotrama, rende al Cinema, attraverso citazioni: quella di Barnabas quando descrive al custode la natura architettonica della sua Collinwood, enunciato di quello che potrebbe significare per Burton un film, i suoi film, cioè “perfetto sposalizio tra eleganza europea e imprenditorialità americana”). E attraverso il cammeo, anche in questo caso, del monumento Christopher Lee (che richiama ancora in maniera più evidente i film horror anni ’40 e ’50). Al quale bastano pochi minuti per riempire lo schermo cinematografico e surclassare un Johnny Depp un po’ sottotono. Sperso, come quell’artista che l’aveva “creato”.
VOTO 6