DJANGO UNCHAINED di Quentin Tarantino

24.01.2013 18:54

Ancora. Tarantino manca ancora l’appuntamento con il capolavoro. Questo Django Unchained è addirittura inferiore a Pulp Fiction, Kill Bill-Volume 2, e soprattutto a Inglorious Basterds, ad oggi, per il sottoscritto, l’opera migliore firmata Tarantino: la più matura, la più esagerata, e paradossalmente equilibrata. Equilibrio che manca in quest’ultimo film. Tarantino confeziona un’opera cinematografica ampia, importante, e ci offre prove di regia di altissimo valore: dentro ai generi, e fuori; dentro al suo cinema (che notiamo, purtroppo, a sprazzi) e fuori. Ma sale troppo, non tiene la nota, e stecca. Per la prima volta Tarantino, consapevole del suo status di grande regista, si compiace di quello che fa. E lo si nota nel film. Si specchia. Ostenta troppo. Si piace. Non piace.

America di fine ‘800, al tempo della guerra di secessione e della schiavitù dei neri. Lo schiavo Django è reso libero e poi assoldato dal dottor tedesco King Schultz, un cacciatore di taglie, per aiutarlo nel riconoscere tre ricercati bianchi, dei quali lo stesso Django era stato schiavo qualche anno prima. Da qui il sodalizio tra i due, che li porterà, dopo aver ucciso questi primi obbiettivi, ad attraversare l’America per raggiungere la dimora sudista dello schiavista spietato e senza scrupoli, Calvin Candie, che “possiede” come schiava la moglie dello stesso Django, Broomhilda. Storia di un eroe, come quel Sigfried tedesco che, come narra il “doc” a Django, liberò la sua amata principessa/sposa Brumilde dalle grinfie di un drago. Un eroe-antieroe, questo Django, a cui dà volto Jamie Foxx: un eroe che, tutto sommato, non prende lo spettatore, non lo coinvolge emotivamente nella sua missione, un personaggio non pienamente riuscito. Al contrario del dottore, interpretato da un grande Christoph Waltz, che subito piace e appassiona come personaggio, per la sua velata ironia, per essere sempre un passo avanti e sicuro di sé, per il suo rigore morale, che seppur costretto nell’ambiguo ruolo di un cacciatore di taglie, riesce ad emergere, in particolar modo nel finale. Oltre la mancata caratterizzazione del protagonista, lo script non funziona sempre in modo perfetto nemmeno a livello di narrazione, e del “cosa” narrato: si perde nella sua lunghezza eccessiva, nella sua dilatazione smisurata di momenti poco importanti, e nel suo raccontare momenti anche inutili. Tuttavia pur essendo prolisso, il film procede piuttosto bene, e coinvolge: ha il sapore del grande cinema, che non può non piacere. Che non può non riuscire a rendersi appetibile, e infine, a soddisfare lo spettatore, anche per la profonda impronta che, a modo suo, Tarantino riesce a lasciare in questo periodo storico che ha voluto raccontare, facendo emergere tutte quelle contraddizioni umane che lo hanno caratterizzato. Ma forse, troppo “grande cinema”, e poco “grande cinema tarantiniano”. Il western è girato dentro ai suoi schemi, ai suoi scenari, alle sue luci, ai suoi personaggi, in modo impeccabile, negli zoom, nelle silhouette, nei campi lunghi, nei dettagli dei costumi e armi varie. Ma Tarantino poche volte esce da questi schemi, omaggiando poco, e risultando altrettanto poco ironico e stravagante, originale. Solo alcune scene richiamano in modo chiaro il cinema di Tarantino (tra tutte quella dei sacchetti in testa), e alcune scelte: quella dei flashback, riferimenti precisi al film originale Django di Sergio Corbucci (1966) e ad altri film di quel periodo (credo), quella di far fare un cameo a Franco Nero (attore che interpreta il Django originale), quella della colonna sonora, un mix esplosivo tra “classici” (firmati anche Ennio Morricone), e rap. In queste scelte, Tarantino ha osato, ha avuto coraggio, ha rotto un po’ quegli schemi nei quali sembrava ingabbiato. Ed è il Tarantino che piace: il cinema di Tarantino è osare, è stravolgere, è creare dal nulla, o dal tutto. È amore verso la sua arte. Non amore verso il sé regista.

Django, si pronuncia “jango”, perché la “D” è muta. Tarantino non sempre se l’è ricordato. Marcandola con troppa convinzione. Provocando uno stridente fastidio.

VOTO 7