FLIGHT di Robert Zemeckis
Ritorno al passato, più che ritorno al futuro. Il ritorno di Robert Zemeckis, l’autore di capolavori indimenticabili come Ritorno al futuro e Forrest Gump, al cinema in live action, è qualcosa di sorprendente. Sorprendente perché, seppur in Flight possiamo riconoscere chiaramente la mano del suo regista, tesa verso quell’inclinazione quasi nostalgica, ma sempre fiorente, di quel cinema americano classico “fatto come Dio comanda”, notiamo anche molto di nuovo, molto di atipico, inusuale: un cinema d’autore, riflessivo, lento; realistico, umano. E con discrezione, con disinvoltura, con la rara bravura che gli compete, Zemeckis scrive da regista pagine d’antologia. Impartisce lezioni: come solo i grandi maestri possono fare.
Che si tratti di un film di Robert Zemeckis lo si capisce dalla prima inquadratura: dettaglio di un orologio, come accadeva per Ritorno al futuro, come allo stesso modo in Castway, i due film che più di altri, hanno dato voce alla riflessione personale dell’autore sul tempo. Che non si tratti di un comune blockbuster, allo stesso modo, lo si capisce dalle prime inquadrature, concesse al nude look di una donna. Flight è qualcosa di nuovo. Parte subito alla grande: Zemeckis, autore da annoverare tra i più grandi narratori per immagine della settima arte, in pochi minuti ci descrive il suo protagonista e tutta la sua vita: pilota d’aereo, divorziato, con un figlio, ha una relazione con una hostess che lavora con lui. E soprattutto ha il vizio di bere molto e di qualche sniffata di coca. Tutto questo, e siamo ancora dentro la stanza di un hotel. Flight, tecnicamente parlando, ha già preso il volo. La sequenza del disastro aereo poi è qualcosa di veramente spettacolare, nella costruzione di tensione e paura palpabili perché provocate attraverso una devastante resa realistica della scena, che trova il suo apice nell’atto di ripresa conclusivo, il classico filmato amatoriale da telefonino, che mostra l’aereo schiantarsi al suolo, con diverse persone, che assistono terrorizzate, e fuggono in preda al panico da tutte le parti. Da lì in poi, il nuovo film di Zemeckis abbandona il suo lato più puramente spettacolare, per analizzare, con riguardo e cura amorevole, il dramma interiore del suo protagonista (un intenso ed eccezionale Denzel Washington in odore di statuetta) senza porre sentenze, lasciando che la storia si racconti da sé, e lasci, lei, i suoi insegnamenti. L’opera del regista americano si costruisce intorno a ben precise ambiguità e paradossi, forti, che mettono a dura prova la coscienza morale dello spettatore, e la sua presa di posizione. In primis: Whip (il protagonista) è veramente un eroe? Cosa assume più valore etico, il fatto che la sua manovra impeccabile, perfetta, da osannare per la sua originalità e sfrontatezza, abbia salvato un centinaio di persone, cosa che non sarebbe riuscita ad un altro qualsiasi pilota; oppure il fatto che quel giorno sia andato alla guida di quell’aereo, ubriaco, sotto l’influsso di droghe, e senza aver chiuso occhio la notte prima? Quanto pesa questo secondo aspetto, che per la portata dell’impresa potrebbe essere una sciocchezza e passare in secondo piano, quanto pesa invece, nella coscienza di Whip? Pesa moltissimo, effettivamente: un peso che grava nelle sue spalle continuamente, un peso che Zemeckis evidenzia con dei primissimi piani che schiacciano il suo protagonista, che lo indagano da vicino, che trapassano, che angosciano. Un peso che non riuscirà più a reggere, di cui dovrà liberarsi nel finale, espiando le sue colpe, sconfiggendo il suo vizio, il suo peccato: dell’alcol, della droga. Un vizio che gli ha impedito di essere, nella sua vita, quello che sarebbe dovuto essere: un marito e un padre soprattutto. Flight è una storia di redenzione. Chi critica il finale, rivendicando un moralismo eccessivo e fuori luogo, un cambiamento che avviene in modo troppo repentino, non ha compreso fino in fondo la natura dell’opera di Zemeckis, e qui parlo di un’ulteriore ambiguità, o se vogliamo paradosso, su cui il film si regge, nel piano formale: Flight è un dramma umano e fin troppo realistico, che percorre però i sentieri sempre edificanti di una bellissima fiaba. E non ci può essere che un happy end in una fiaba: non sarebbe stato per niente coerente con se stesso, e con quanto (e “come”) raccontato prima, se avesse concesso un altro finale. E il cambiamento non avviene di punto in bianco, ma con dolore e fatica, e allo stesso tempo con istinto, aspetto, questo, quanto mai caratterizzante della sua persona. Nell’intreccio delle vite che racconta - il rapporto di Whip con una donna tossicodipendente che insieme a lui cerca di salvare la sua vita, o con l’avvocato che si è preso l’incarico di liberarlo da questa condanna - Flight non lascia niente per strada, dando importanza e spessore ad ogni dettaglio, valorizzando in pieno la forza di una sceneggiatura solida, senza crepe. È mancato, forse, quel sentimentalismo che ha scaldato i cuori di tanti spettatori amanti del cinema di Zemeckis, sacrificato a una cura maniacale della messa in scena, impeccabile certo, ma che si sa, a volte risulta un po’ fredda. Ma tanto basta a Flight per essere ricordato come un grande film: un cavallo di razza, un cinema dall’impianto classico, che riesce a rinnovarsi con le giuste dosi, con il giusto ritmo. Con il suo tempo.
Il tempo, per l’appunto, si diceva all’inizio. Dilatato a dismisura nell’isola di Castway, qui si riduce ad un istante: in un istante puoi passare da un volo tranquillissimo di meno di un’ora, a una caduta libera senza speranza di salvezza. Dalla morte certa, puoi scoprirti a respirare ancora. Da eroe puoi diventare un criminale, un colpevole. Da peccatore, puoi risorgere a “nuova vita”. Tutto in un istante: quello che passa tra la domanda, un sorso d’acqua, e la risposta. “Sembra strano” - dice il protagonista, nel finale, rinchiuso in carcere - “ma ora mi sento libero veramente”: altro paradosso.
“Quale Dio può permettere questo?”, dice Whip al suo avvocato, nel luogo dell’incidente, a qualche giorno dall’avvenimento. Gli eventi non accadono per caso. E Whip alla fine ottiene la sua redenzione. Altro paradosso: il più difficile da comprendere, forse da accettare. Il paradosso della volontà di Dio.
VOTO 8