GRAVITY di Alfonso Cuaron
Che Alfonso Cuaron fosse un regista talentuoso ce ne siamo accorti anche nel terzo capitolo della saga di Harry Potter, che a dirigerlo è stato lui, e che rimane, di fatto, il migliore dei sette film, registicamente parlando, appunto. Ma oggi il successo di Gravity lo ha posto all’attenzione anche del grande pubblico. Un’attenzione che il regista messicano si merita: tutta quanta. Con la macchina da presa sa esprimere la bellezza estetica della settima Arte. Puramente estatica, per noi.
La storia di Gravity si svolge nello spazio, e vede coinvolti, principalmente, gli astronauti Ryan Stone e Matt Kowalski in alcune riparazioni presso una stazione spaziale. Un improvviso “attacco” di detriti causa una serie di conseguenze drammatiche e costringe i due ad una durissima lotta di sopravvivenza nello spazio aperto, dagli esiti mai scontati. Guardando Gravity si entra in uno stato di ansia che accompagna per tutta la durata del film: Cuaron riesce a rendere l’infinito dell’universo spazio claustrofobico, manca il respiro agli astronauti protagonisti della storia, manca il respiro anche allo spettatore, che quasi si sente coinvolto nella ricerca disperata di salvezza, in una situazione drammaticamente impossibile per la dottoressa Ryan Stone: sia per difficoltà esterne oggettive, sia per difficoltà interne, di un passato che ritorna, che fa male, che rende quasi inutile e vuota la speranza di un ritorno sulla terra. Hanno classificato Gravity come film di fantascienza: io di fantascienza ci ho visto poco, se non alcune cose verosimilmente impossibili, ma che esistono in ogni film, in quanto tale, che però di fatto non li rendono opere di fantascienza. Il film di Cuaron è un neorealismo postmodermo, un neorealismo che ha come contesto lo spazio, e la vita degli astronauti nello spazio. Poi, è vero, diventa film drammatico, quasi thriller, per la suspense intensa che si viene a creare in un crescendo sempre continuo e nell’avvicendamento di tante situazioni pericolose. Ma è anche altro, dunque: è parabola esistenziale di una donna che cerca oltre la salvezza del suo corpo, anche quella della sua anima; un ritorno alla vita, ad avere il coraggio di andare avanti, ammirare ammaliati una splendida aurora, o gli occhi di un uomo che si sacrifica per te. La perfetta realizzazione estetica di Gravity, che in tal senso lo rendono forse il miglior film dell’anno, si interiorizza: non soltanto il “come” diventa “cosa”, e la bellezza di un’inquadratura diventa contenuto, tematica, filosofia, che di per se è già cosa grande, ma si interiorizza anche in quanto metafora di un percorso esistenziale, così possibilmente vicino alla vita di ogni persona. È densa di umanesimo, semplice, ma anche pesante, l’opera dell’autore de I figli degli uomini.
Ma soprattutto per chi ama il cinema, Gravity è un viaggio imperdibile, perché è pura essenza di questa arte, espressa veramente ad altissimi livelli. Alfonso Cuaron ammalia, incanta, appassiona, stupisce: il cinema da strumento diventa soggetto, da significante diventa significato, da linguaggio diventa lingua parlata. Ed esprime tutta la sua genuina, indispensabile importanza.
VOTO (?) Una seconda visione sarà chiarificatrice.