HUGO CABRET di Martin Scorsese
Orologi: grandi e piccoli, sofisticati o semplici. Tic tac. Sembra l’inizio del cult anni’80 Ritorno al Futuro di Robert Zemeckis, questo nuovo film di Martin Scorsese. E in effetti siamo subito proiettati indietro nel tempo: in un momento ormai lontano, nostalgico, ma sempre bello da rivisitare, da rivedere, da poter ammirare un’altra volta, con sensazioni nuove ed emozioni sempre semplici ed autentiche. E’ il tempo della nascita del Cinema, della sua bellezza, della sua natura onirica e spettacolare. Del suo configurarsi innanzitutto come “avventura”, come spettacolo, come sogno, come intrattenimento e piacere, prima di essere orpellato con (eccessivi) discorsi poetici e filosofici, tematici e morali.
Il cinema è avventura. E’ essenzialmente questo quello che ci vuol raccontare Martin Scorsese con il suo Hugo Cabret, liberamente tratto dal romanzo illustrato, capolavoro di Brian Selznick, La straordinaria invenzione di Hugo Cabret. Da eccellente narratore cinematografico quale è, Scorsese in pochi minuti iniziali ci va a presentare tutti gli elementi fondamentali che vanno a comporre questa sua prima favola del grande schermo. La città di Parigi, che fa da sfondo al luogo principale della vicenda, la stazione ferroviaria, dove Hugo vive, continuando a far funzionare ogni singolo orologio presente; i personaggi, dal temibile capostazione con il suo cane, passando per la fioraia, dalla pasticcera e il suo cane, al suo strano e simpatico spasimante; per arrivare a lui, il protagonista della storia, Hugo. Un orfano che sopravvive rubando qualcosa in qua e in là, e che vive per poter riparare un automa, che il padre aveva trovato abbandonato nel museo in cui lavorava come orologiaio, e che insieme avevano iniziato a rimettere a posto, prima della morte di quest’ultimo. Hugo è convinto che l’automa scrittore, una volta riparato, gli lascerà un messaggio di suo padre. E’ per poter assolvere a questo compito, che Hugo un giorno viene a fare la conoscenza di Melies, il famoso illusionista, regista nei primi anni della nascita del cinema. Un Melies rotto, come l’automa che Hugo vuole riparare. Un Melies venditore di giocattoli, nella stessa stazione. Un Melies che ha dimenticato il passato, perché crede che il passato si sia dimenticato di lui. Che non vuole ricordare. Che impedisce alla figlia adottiva, grande amante di libri, e futura compagna di avventura di Hugo, di andare al cinema. Un Melies che, almeno a prima vista, non è Martin Scorsese. Perché Scorsese ha proprio intenzione di ricordare tutta la bellezza e la potenza del mezzo cinematografico, di ricordare e di fermare il ricordo, almeno per le due ore di questa pellicola.
Guardando il trailer prima dell’uscita nelle sale, non capiamo bene di cosa il film tratti. E siccome le notizie sono sempre chiare e forse troppe, molti saranno andati al cinema consapevoli che Hugo Cabret era un omaggio alla Settima Arte fatto da Martin Scorsese. Basandoci solo sul trailer, però, quello che si evince è un film in stile Cronache di Narnia, con un pizzico di gusto burtoniano alla Edward Mani di Forbice, o all’Uomo Bicentenario: un’avventura fantastica e un film per bambini. Ed effettivamente è quello che è: guardando la pellicola scopri che l’avventura è il cinema stesso, la riscoperta della sua natura originale. E che effettivamente Hugo Cabret è un film per bambini, perché ti impone di vederlo con gli occhi dei bambini, che si meravigliano per le semplici cose, che si meravigliano come quei primi spettatori davanti ad un film documentaristico dei fratelli Lumiere, o a un viaggio surreale di un Melies. Hugo Cabret respira di cinema in ogni fotogramma; ogni scena sembra racchiudere un elemento, sonoro o di immagine, che rimanda al cinema, all’idea dell’immagine in movimento, a quel periodo dove la scienza sembrava magia, dove i sogni potevano diventare realtà: il rumore della cinepresa che muove una pellicola, il fascio di luce che esce da un proiettore quando Hugo ricorda il padre nell’unico flashback del film, la donna con il cagnolino che richiama il celebre quadro futurista di Giacomo Balla. Il film di Scorsese omaggia il cinema non solo nella storia che racconta, ma anche in ogni movimento di macchina, in ogni inquadratura, in ogni fotogramma. In Christopher Lee, dipinto come vero e proprio monumento della storia del Cinema. Ci facciamo appassionare dalla vicenda di Hugo, dalla sua forza di volontà, ci facciamo trasportare in questa avventura. E anche noi rimaniamo nuovamente stupiti, di fronte ad un treno che esce dallo schermo, quasi sembra investirci, perché la tecnologia del 3D in Hugo Cabret viene a costituirsi come elemento fondamentale dell’opera: Scorsese se ne serve proprio per poter risvegliare in noi, suoi spettatori, lo stupore verso quei meravigliosi giochi illusionistici che il cinema di Melies sapeva creare. A tratti ci commuoviamo anche, liberi come la leggiadra macchina da presa che continua a muoversi sinuosa tra i corridoi della stazione e i cunicoli che si celano dietro i suoi splendidi orologi.
Scorsese è innanzitutto Hugo Cabret. Semplice e innocente avventuriero che cerca di realizzare il proprio sogno, sognatore in una realtà difficile e triste. Appassionato e passionale amante del cinema. Uno che vuole riparare le cose, riparare le persone. Come Hugo ripara il cuore rotto di un Melies malinconico, così Scorsese vuole riparare il meccanismo interno di ogni singolo spettatore. Che forse oggi non possiede più quegli occhi in grado di meravigliarsi; anzi occhi che difficilmente vedono il cinema come una meraviglia, come un grande sogno collettivo, condiviso con altri occhi di persone che amiamo, o che, come noi, amano il cinema. Scorsese è, quindi, anche Melies. Non il Melies che distrugge le pellicole, ma il Melies nuovo, che paradossalmente è quello di un tempo.
Hugo Cabret è il suo automa. Il cuore innesta il meccanismo. Disegna. Il messaggio ci appare chiaro. “Viaggio nella luna, è ancora oggi, un Capolavoro”.
VOTO 8