MILLENIUM di David Fincher

08.02.2012 15:29

 

Dopo la parentesi The Social Network, e Il curioso caso di Benjamin Button, Fincher torna a percorrere quella strada che lui, nel cinema di oggi, conosce meglio di chiunque altro: il thriller. Con risultati sbalorditivi, raggiunti grazie ad una sensibilità artistica che ormai sembra sfiorare la perfezione.

Millenium- Uomini che odiano le donne è la trasposizione cinematografica del bestseller mondiale di Stieg Larsson. Millenium è il remake del film del 2009 diretto da Niels Arden Oplev. Millenium non è una trasposizione. Millenium non è un remake. Questo è quello che ci dice Fincher stesso. Questo è quello che sentiamo noi spettatori, durante la visione, ma soprattutto a film concluso. Ma non solo; già dai titoli di testa ci rendiamo conto di trovarci davanti ad un prodotto artistico originale e nuovo, seppur essendo, e qui risiede il paradosso o il grande pregio della pellicola e del regista, un remake e una trasposizione. I titoli impressi sullo sfondo di immagini “liquide”, fluide, che creano corpi, muovono forme, e disegnano interazioni, rapporti, concetti; conditi dalla splendida cover del classico rock Immigrant Song dei mitici ed unici Led Zeppelin, riescono già a nutrire lo spettatore di tutto quello che poi troverà nelle seguenti due ore e mezza di durata del film.

Non è difficile ricondurre Millenium alla ormai consueta denominazione di “thriller psicologico”, genere che accompagna Fincher da diverso tempo, già ai tempi di Seven, ma soprattutto con Zodiac, e che caratterizza l’opera di diversi autori contemporanei. Come in Insomnia di Nolan, per esempio, dove il bianco dei paesaggi dell’Alaska era sporcato dal rosso dei crimini, e dal nero delle coscienze corrotte, così in Millenium un paesaggio algido, dipinto da una emblematica fotografia, fa da contrasto ad una storia di violenze, carnali e passionali, concrete e forti. E non solo. Proprio sul contrasto, anche e soprattutto psicologico, di rapporto umano, si regge il film di Fincher. E’ il vero nucleo centrale, è quello che interessa al regista. Non tanto, quindi, la detection, che è di stampo piuttosto classico, ma costruita comunque ancora una volta in modo impeccabile dall’autore, nei ritmi, nella suspense, negli equivoci, nei tempi giusti e cadenzati, il tutto reso al massimo da un montaggio impeccabile; quanto piuttosto i personaggi, la loro mente, la loro vita e, soprattutto, i loro rapporti e contrasti. Fincher esamina con la macchina da presa ogni sfumatura dei suoi protagonisti, con inquadrature che rivelano ogni piega del loro animo; più che con Blomkvist (Daniel Craig), giornalista-detective per la rivista Millenium, caduto in disgrazia per un’ingiusta condanna per diffamazione, è con Lisbeth Salander, a cui dà corpo e voce, passione e amore un’intensa Rooney Mara, che Fincher ha la possibilità di riassumere il senso ultimo del suo film, e ogni risvolto anche etico e morale, che ogni suo lavoro deve in qualche modo avere. Con Millenium forse scopriamo la lettura più pessimista e, quindi, dolorosa del Mondo, che si affaccia sempre alla finestra di casa Fincher. Per lui la strada verso la realtà passa attraverso la violenza, è segnata in modo indelebile dal sangue e dalla sofferenza che questa provoca.

Detective meticoloso e appassionato del suo lavoro, hacker d’eccezione, Lisbeth è una figura complessa: solitaria e tormentata, vive di passioni fugaci, che non la portano a riempire un’esistenza difficile, fatta di compromessi dolorosi, e di sofferenza fisica, tangibile. Grazie a lei, Fincher può interrogarci anche in modo pesante, su tantissime questioni: come quel concetto di diversità, che oggi più che mai, si esprime dall’apparenza, dall’aspetto esteriore. “Lei non è normale”, dice il suo datore di lavoro a inizio film. E successivamente è lo stesso pensiero che esprime il suo nuovo tutore, “le persone normali fanno così”, prima di farsi fare un servizio sessuale dalla stessa ragazza, in teoria quella “non normale”. E’ proprio questa violenza nascosta, celata ma presente, che interessa a Fincher. La violenza di questo tutore, persona apparentemente normale, diabolico stupratore nel suo animo e nel suo appartamento. La violenza dell’assassino di turno, nascosta, anche in questo caso, da un sorriso e da modi gentili, espressa nel buio più profondo della propria coscienza, in un bunker sotto casa nella profondità della terra. La violenza interiore della stessa Lisbeth, che si sprigiona dalla debolezza e fragilità, ma che trova forza nella repulsione e nella vendetta: in un istinto, ancora una volta, di sopravvivenza ad un mondo che potrebbe schiacciarla da un momento all’altro. La violenza sottile e non premeditata, intesa come “causa di sofferenza”, della ragazza scomparsa Harriet verso lo zio Henrik Vanger (colui che commissiona il nuovo incarico a Blomkvist, proprio quello di far luce su questa misteriosa scomparsa): sofferenza di distacco, dolore di una perdita. E, infine, la violenza dello stesso Blomkvist, verso Lisbeth: violenza di illusione di un amore, che avrebbe dovuto riparare e colmare l’animo inquieto della giovane, rimarginare le ferite di entrambi, donare nuova linfa vitale. Che per un po’ l’ha fatto. Per un po’. Come un’illusione.

“Un esteta baudelariano a rovescio, un modernista che si abbandona al romanticismo, trovando la bellezza in corpi che marciscono e città che esalano vapori e cattivi odori”. Amy Taubin, parlando di Fincher, ai tempi di Seven (1995). Espressione quanto mai ancora attuale.

 

VOTO 8