MUNICH di Steven Spielberg
Ho avuto modo di rivedere Munich qualche giorno fa. In tempi, purtroppo, quanto mai azzeccati. Perché il film di Spielberg, del 2006, che racconta della missione “Ira di Dio”, vendetta organizzata contro i fatti di Monaco ’72, quando un commando palestinese prima sequestrò, poi uccise 11 atleti della squadra olimpica israeliana, si incastra perfettamente nella fitta trama di drammatica attualità e disarmante realtà che il mondo sta vivendo. Spielberg non fa un film, ma il film del post 11 Settembre, tanto per impianto tecnico-stilistico, quanto per impatto tematico ed emotivo. Alza il dito e lo porta verso il naso, a zittire tutti, anche i tacenti che non dicono quello che dovrebbero far sapere, ma soprattutto i chiacchieroni, i bugiardi seriali, i vati che sanno tutto e cioè niente. E i complici, alla quale categoria tutti, anche in piccola parte, ci possiamo iscrivere. Ma zittisce anche chi lo ha sempre etichettato come autore pro America, sottomesso al potere di Hollywood e dell’industria. Ed allora stende il braccio di fronte a sé, e con il dito puntato proprio verso il suo Paese, specifica responsabilità precise, solleva tappeti che nascondono polvere, indica la verità. “Rifuggendo da ogni retorica, il regista (ebreo, lo ricordiamo) ha girato un film che dal punto di vista politico è stato capace di scontentare tutti: ha scontentato Israele, ha scontentato arabi e palestinesi, ha scontentato gli Stati Uniti, che vi hanno giustamente letto una durissima accusa alla loro politica estera, di ieri e (soprattutto) di oggi. E scontentare tutti, oggi, è un gran bene”[1].
Perciò oggi Munich, uno dei massimi capolavori di Spielberg, torna prepotentemente d’attualità, e non solo ci ricorda di quanto sia grande - strutturalmente perfetto in ogni sua parte (la fotografia di Kaminski, per fare un esempio, è sbalorditiva), di un equilibrio calcolato al millimetro, di una sapienza narrativa e di una conoscenza profonda dei generi - il suo cinema; ma ci ricorda sopra ogni cosa, di quel dito che innanzitutto invita a tacere, e poi punta i veri colpevoli e i mandanti. Ed infine (in)segna la strada da percorrere.
“Lo sguardo di Spielberg è lucido e pessimista. Anche quando israeliani e palestinesi si parlano (in una scena che mette a confronto Avner con palestinese ignaro della sua identità) quello che emerge è magari una simpatia e un’empatia a livello umano, ma una assoluta e profonda inconciliabilità di vedute a livello macro, nella politica e nella sua azione pratica. La violenza scatena altra violenza, il dialogo sembra impossibile, ragioni e torti sono distribuiti in maniera equanime da entrambe le parti. La resa di Avner, una fuga, una rinuncia, sembra l'unica (non)soluzione possibile.
Apparentemente lontani da tutto quanto accade nel film, gli USA vengono tirati in ballo in pochi e precisi momenti da Spielberg, con spietata puntualità. Se il film si apre mostrando atleti americani che, seppur ignari, aiutano i terroristi di Settembre Nero ad entrare nel Villaggio Olimpico di Monaco non è certo un caso. Non è certo casuale che della CIA si sottolinei la presenza/assenza in alcuni precisi momenti nel corso della narrazione. E di certo non è un caso se il film si va a chiudere come si chiude: con una discussione tra il disilluso Avner ed il convinto sionista Ephraim (uno dei capi del Mossad che cerca di riportare Avner in servizio) che ha come sfondo lo skyline di Manhattan, che mostra il palazzo di vetro dell'Onu prima e le Torri Gemelle poi. Il simbolismo è chiaro. Il riferimento all'oggi anche. Con Munich Spielberg non si limita a sottolineare le responsabilità americane in Medio Oriente, ma denuncia l'inadeguatezza della diplomazia e soprattutto mostra, con inaudito coraggio, come l'11 settembre sia figlio di una spirale di violenza con precise responsabilità americane e di come le successive reazioni del governo Bush siano destinate a fare la stessa fine dell'operazione "Ira di Dio".
Si può cercare di eliminare i terroristi, si possono minacciare o invadere gli Stati canaglia. Ma, in assenza di cambiamenti strutturali, questo servirà solo ad alimentare violenza, conflitti, scontri di cultura e disillusione. Si può condividere il discorso di Spielberg o meno (noi lo condividiamo). Se ne può contestare il pessimismo. Ma non si può negare il coraggio che ha dimostrato con questo film né il grande talento cinematografico che ha confermato”[2].