NORWEGIAN WOOD di Haruki Murakami

06.09.2014 23:58

Mi sono accostato a Murakami con un interesse sincero e vero, ma – non lo nascondo - mascherato anche da una punta di diffidenza, di dubbio. Mi è stato consigliato di leggere Norwegian Wood, il suo quinto romanzo, il più realistico e quindi il più stonato rispetto alla sua produzione precedente e, in parte, futura.

Che dire... i termini del discorso si sono ribaltati: è persistito il dubbio, ma nascosto anche e ancora da una punta di interesse.

Interesse verso una letteratura giapponese che con Murakami, con Moshimoto e con il più celebre Mishima, ha saputo svecchiare tradizioni e classici stereotipi, fatti di realtà fin troppo ideologizzate, e perciò bloccate dentro un immaginario dell’oriente che è collettivo. Di fatto ha portato le vicende nel Giappone meno orientale, e più occidentale: in Murakami, e in Norwegian Wood questo lo si sente moltissimo, sarà anche per l’influenza che il romanzo ha avuto nel momento della sua stessa stesura, prima in Grecia, poi nella nostra Italia, a Roma. E lo si percepisce anche nelle citazioni ai grandi romanzi, verso i quali si intravede un debito importante e decisivo dell’autore; o, ancora, nelle citazioni di numerose canzoni occidentali. Lo si legge nelle azioni dei protagonisti tra pub, o bar, in love hotel, e cinema, ecc... se non fosse per il nome delle città, o quello di classici cibi giapponesi, la cultura orientale e tipicamente giapponese non riuscirebbe altrimenti ad emergere. Questo è un pregio: è una forma di coraggio, che ha dato a Murakami lo status di autore di culto, che mantiene ancora oggi; è rendere Norwegian Wood un romanzo universale: il giapponese che lo legge si immagina i personaggi con i propri caratteristici caratteri somatici; se lo legge un occidentale, un italiano per esempio, come il sottoscritto, pensa ai personaggi come a se stesso, o a qualcuno di somigliante.

C’è grazia nello stile dell’autore giapponese. C’è forza narrativa, quasi un “montaggio” cinematografico attento, curato, preciso, fatto di ellissi, flashback, ritorni, richiami: ci conduce con passione nelle pieghe della storia del nostro protagonista. E lo fa anche con tanta forza poetica, tanto da rivestire di potenza simbolica tanti oggetti comuni, o realtà quotidiane. Ma bisogna essere sinceri: nel complesso dell’opera Norwegian Wood non riesce minimamente ad avvicinarsi a quei romanzi che lo stesso Murakami fa leggere al suo protagonista, da David Copperfield di Dickens, a Il grande Gatsby di Fiztgerald, oppure La montagna incantata di Thomas Mann. Manca spessore nelle azioni, nel dramma, manca spessore nella storia: il libro mette tanta carne al fuoco, ma paradossalmente invece di risultare pieno, si svuota. Diventa ripetitivo: il protagonista Toru, nella sua vita tediosa – che non veicola riflessioni più profonde, ma resta in superficie, nella sua condizione d’essere tale, e stop - affascina fino ad un certo punto, poi risulta spesso stucchevole, privo di interessi tanto lui, quanto noi, di conseguenza, verso di lui. La morte è dietro ogni angolo, tanto da incupire troppo drasticamente e senza un vero senso ultimo la storia, che infatti non riesce a slanciarsi quasi mai verso la vita, in modo deciso, e veritiero: perché se gli slanci dovrebbero essere le numerose pagine dedicate al sesso, o derivati, non ci siamo proprio, anzi, il romanzo scivola in una bassezza che, sinceramente, non gli compete, e non si merita. Nel linguaggio spicciolo, gretto, diretto, che preclude l’immaginazione, non si nasconde mai alta letteratura, mai.

A volte ci si dimentica che se voglio leggere la realtà posso benissimo guardarmi intorno. Un libro non deve mai rinunciare al suo primo fine, il suo scopo principale, primordiale: permettere al suo lettore di evadere da questo mondo. Se poi, una volta evaso, gli si parla di realtà e del nostro drammatico (o piacevole) presente, ben venga. Ma prima io, lettore, e te, caro autore, andiamocene lontano, verso lidi inesplorati.