ON THE ROAD di Walter Salles

18.10.2012 20:14

Ci sono quei romanzi, talmente famosi e importanti, così di richiamo, nella letteratura mondiale, che non averli letti ti fa sentire, a volte, un diverso, un escluso. Uno di questi è “On the Road” di Jack Kerouac, simbolo della Beat Generation degli anni ’50, un movimento giovanile che scosse il terreno USA, portando ai movimenti culturali e sociali del celebre ’68. E io non l’ho letto, non ho mai avuto occasione e modo di poterlo fare. È sempre stato nella lista delle “cose da fare”, ma è rimasto lì. Ecco, dopo aver visto il film di Walter Salles, che tra l’altro dal ’57, anno in cui il libro è stato pubblicato, è il primo e quindi unico adattamento cinematografico di questo celebre romanzo, credo che la lettura dell’opera di Kerouac sarà rimandata ancora un altro po’. Non per mia volontà, perché la curiosità verso un’opera di tale aura culturale resta e forte. Ma per un involontario rifiuto quasi nauseante, che è una conseguenza della visione cinematografica. Il film di Walter Salles, come ho fatto intendere, è un prodotto molto debole, sotto molti punti di vista, ma soprattutto si etichetta con quell’accezione che ogni opera artistica non dovrebbe mai avere: inutile.

La storia di Sal Paradise ci viene raccontata in blocchi narrativi, che non si raccordano in modo fluido e con logica, risultando scomposti e scollegati. Ma soprattutto ripetitivi: Sal e il suo gruppo di amici fanno le stesse cose dall’inizio del film fino alla fine, che si trovino a New York o in Messico: andare in botta con sostanze stupefacenti, e provare ogni brivido del sesso. D’altronde è questa la beat generation, più o meno. Ma resta un esercizio sterile e fine a se stesso, se rappresentata in questo modo: senza un contesto storico, sociale e politico più ampio e preciso sul quale aggrapparsi con decisione, dimostrando quindi di conseguenza una lucidità ed intelligenza che rivendicano all’opera un senso artistico preciso – che di fatto non ha-, e spesso, quindi, il film precipita. Si rialza a fatica, con qualche inquadratura suggestiva e di impatto che fotografa i grandi spazi americani e quella sensazione quasi panica di sentirsi immersi in questi; con qualche sequenza che risveglia quel desiderio adolescenziale che appartiene o è appartenuto un po’ a tutti, della fuga, del viaggio, del vivere senza una meta e giorno per giorno, o dello scrivere un libro, chessò in un rotolo di carta lungo qualche metro. Se si voleva calcare la mano sul rapporto umano tra i protagonisti, mettendo in evidenza i loro sentimenti o turbamenti interiori, il lavoro anche in questo caso non riesce: forse il solo Carlo è personaggio, a tratti, interessante e di stimolo per riflessioni o movimenti emozionali dello spettatore, che altrimenti registrano nel complesso un elettrocardiogramma piatto. E la regia si perde, perché non sa più “come” raccontare le solite “cose”: a tratti un po’ Sean Penn di Into The Wild, a tratti un po’ Anton Corbijn di Control (vuoi per lo stile, vuoi per i piani concessi allo stesso Sam Riley), procede per frammentazione, dando vita ad un “flusso jazz di parole che non trova corrispondenza in una messa in scena pop, levigata e patinata. E, spesso, anche un po’ furbetta.” (Federico Gironi)

Dello spirito edonistico e dionisiaco di Sal, del suo amico Dean, di Carlo e Marylou (finalmente, dopo tempo, un’interessante, questo sì, Kristen Stewart), della loro trasgressione in tutti i campi e in ogni contesto, non ci interessa molto, se non evolve e diventa qualcosa di più costruttivo, che una semplice e mera visione: creare un film su questo, impostarlo in questo modo, è un’operazione che non trova giustificazione alcune, che non trova un senso, un motivo. On the Road è un film che si specchia, ma che si scopre un po’ bruttino. Non passa, non arriva, e non entra, nel cuore. Resta fuori. Abbandonato a se stesso, con mestizia, sulla strada...

Voto 4