PARTIAMO DAL 20ESIMO
20. Colpa delle stelle di Josh Boone. È sempre difficile addentrarsi nel luogocomunismo che popola il mondo stereotipato degli adolescenti ed uscirne con un’opera degna, capace di raccontare quell’età, e di arrivare in modo diretto, chiaro, e soprattutto sincero. Il film di Boone ci riesce, non più di altre opere importanti della storia del cinema, ma non meno di tantissime inutili confezioni vuote. È da apprezzare questo, è da apprezzare la semplicità, l’essenzialità dei personaggi, la schiettezza delle inquadrature, e di quello che ci vogliono raccontare: momenti d’amore, quelli che fanno ridere, e quelli che fanno piangere. I momenti che alla fine sono i soli necessari.
19. La spia – A most wanted man di Anton Corbijn. Ci consegna l’ultima magistrale ed enorme prova d’attore di Philip Seymour Hoffman, che si cala nei panni di una spia atipica, reale, per quanto goffa, a volte impacciata, affaticata, sofferente, dall’immagine grigia, spettinata, trascurata: che vive nell’ombra, ma agisce sulle strade, sul campo. Che sprofonda dentro se stesso, e non riuscendo mai veramente a tornare a galla, fatica a respirare. I suoi sospiri arrancati scandiscono le modulazioni di un trama portata avanti con autorevolezza da Corbijn, in un’impostazione tradizionale e classica del genere, che si contamina di modernità, per l’ardita intelligenza stilistica del suo autore. Niente è scontato in uno spy-film: ed ecco allora che anche l’urlo della sconfitta, in questo caso, può diventare grido artistico, malinconico, ed eterno, di un attore immenso, che esce di scena a testa altissima.
18. The Amazing Spider Man 2 – Il potere di Electro di Marc Webb. Accantonate il primo pessimo film del nuovo corso Spider Man: buttatelo pure nel cestino. Fatevelo raccontare al limite, solo per capire meglio snodi della storia di questo secondo capitolo. E godetevi questo cinecomic, coerente con i suoi personaggi, mai assurdo nelle situazioni, e consapevole della sua natura spettacolare: che ha carattere, personalità, incisività; nel quale le dinamiche di coppia sono strumento di riflessione, e possibilità concreta di andare oltre la superficie da blockbuster: è in questo “oltre” che il regista vuole impiantare il seme del suo discorso filmico. Ci riesce in parte: la pianta è imperfetta, ma pur sempre perfettibile.
17. Jersey Boys di Clint Eastwood. Il Clint che conosciamo. Classico, impeccabile, pulito. Coerente con i tempi e il tempo che impernia la storia di questo film. Meno profondo di altre volte, dei suoi celebri capolavori dei primi anni duemila, meno empatico, e forse più discontinuo, ma non noioso, mai banale. Arriva poco, è vero, ma pretende di raccontare e basta. E lo fa bene. Cavolo se lo fa bene.
16. Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch. Algido, elegante, sofisticato, il film di Jarmusch è puro romanticismo dark, a toni rock. I vampiri del regista americano sono artisti che ballano al chiarore di luna, bevono sangue, e raccontano la storia: l’arte diventa veicolo d’amore, e l’amore resta l’unica forma di sopravvivenza. “Solo chi ama resta vivo”.
15. Magic in the Moonlight di Woody Allen. È il Woody che amiamo, ironico, tagliente, piacevole. Qualche volta stecca, ma quando c’azzecca, il cinema di Allen è un oggetto unico e raro, prezioso: come in questo caso. In Magic in the Moonlight Pone più interrogativi di quanto la superficie fresca e divertente voglia mostrare, di quanto la commedia voglia nascondere. Vibrano le corde dell’amore dietro la magia e l’illusione: Sophie, con il viso delizioso di Emma Stone, le pizzica, e Stanley-Colin Firth, attende solamente di scoprirne la musica, e accettarne la melodia.
14. 12 anni schiavo di Steve McQueen. Dopo l’insicuro (o eccessivamente sicuro) lavoro in Shame, McQueen torna prepotentemente dietro la macchina da presa, per dirigere un dramma dal sapore epico sul forte tema della schiavitù. Lo sguardo del regista britannico è umanissimo, mai retorico, compassionevole nella stessa misura in cui è storico, reale, documentario. Ci regala scene d’antologia, che restano nella memoria, per un racconto che non può lasciare indifferenti. E non lo fa.
13. Lo sciacallo di Dan Gilroy. Un film lucido. Nella regia di Gilroy, fatta di una narrazione sapiente, intelligente, precisa, “cinematografica”, nel senso “accademico” del termine (e nel genere), ma quell’accademico che piace, perché nasconde studio, oculatezza. E che riesce allo stesso tempo a diventare moderno, cinematograficamente al passo: dentro, mai illogicamente fuori da schemi, connotati precisi, richiami e suggestioni. Lucido, anche nella straordinaria interpretazione di Gyllenhaal che si candida ad essere la migliore dell’anno: interpreta con freddezza e assoluta immedesimazione un “joker” reale dei giorni nostri, dal sorriso ammaliante e snervante, amorale, ficcante, e dalla parlantina efficace, dalle maniere e i tic ricorrenti, dalla spietata freddezza nel fare quello che desidera. Lucido, infine, nella sceneggiatura, che imposta una storia appassionante e coinvolgente, drammaticamente imbarazzante, potente. Dolente.
12. Boyhood di Richard Linklater. Non è il miglior film dell’anno, come si è letto da più parti. Ma è il più grande esperimento cinematografico degli ultimi decenni: un film girato in circa 10 anni, qualche settimana all’anno. Esperimento che risulta pregio e difetto: difetto nel considerarlo e vederlo solamente tale, come fosse un esercizio esclusivamente scientifico, estraniandolo dal puro concetto di cinema, di una storia che sappia raccontare qualcosa di più, che sappia rinnovarsi nel suo incedere narrativo, e non cercare forza su una ridondanza che, invece, sgonfia. Pregio, tuttavia e soprattutto, nell’essere un passo nella storia del cinema che diventerà impronta indelebile. Un cinema evento, che ridefinisce possibilità e aspettative. Quanto ancora potrà stupirci la Settima Arte? Quanto ancora può pretendere? Linklater ha osato e sebbene non abbia fatto centro, ci è andato vicino, e soprattutto ha lasciato un segno evidente, che resterà a lungo sul bersaglio, a ricordarci di quali esperienze possiamo vivere dentro una sala cinematografica davanti un grande schermo; di quali sconfinate possibilità abbia una macchina da presa, nelle mani di un autore sensibilmente geniale, e amorevolmente coraggioso.
11. Maps to the stars di David Cronenberg. Un’altra analisi spietata di Hollywood, dei falsi miti, delle false idolatrie, dei meccanismi meschini che si nascondono dietro le quinte, lontano dalle luci dei riflettori, in una quotidianità spiattellata senza trucco e parrucco, senza orpelli e abbellimenti: sporca, quasi squallida. Difficile tracciare le coordinate delle mappe delle stelle, in un mix di commedia e dramma, sogno e incubo, maschere e volti veri e autentici. Allora si incidono tagli, profondi come solchi, dolorosi come ferite. Per cercare qualcosa, che non sia il vuoto.