PROMETHEUS di Ridley Scott
È stato oggetto di molte critiche, già oltreoceano, e poi anche qui in Italia, una volta sbarcato. Parliamoci chiaro: Prometheus non è Alien. Non ha né il peso, né il valore storico del film del 1979. Ma paragonarlo con quel film, oscurerebbe fin troppo quello che invece Prometheus effettivamente e principalmente è: un film di buono, a volte buonissimo, livello. Pertanto se l’appassionato del genere o il cultore di quel lontano Ridley Scott resterà un po’ deluso e amareggiato (nemmeno tanto a ragione secondo me), l’appassionato di cinema non può: perché fin dalle prime inquadrature alle ultime, Ridley Scott riveste il suo Prometheus dell’abito migliore. Mostrando, di fatto, tutta la bellezza della Settima Arte.
Fin dall’incipit ci immergiamo in uno spettacolo visivo eccezionale, unico: Scott calibra ogni singola inquadratura, fotografa paesaggi immensi che riempiono lo schermo, pulisce l’immagine in modo meticoloso. Inevitabile che poi ci torni da subito in mente Alien, dalla presentazione del robot David a cui dà vita un grandissimo Michael Fassbender, alle capsule in cui dorme l’equipaggio, ai carrelli lenti che descrivono l’imponente astronave, ai totali evocativi che la inquadrano nello spazio. È chiaro, quindi, che Prometheus costituisca un prequel del film del ’79, perché i rimandi, sia narrativi, che stilistici sono tanti. Impeccabile, dunque, a livello visivo, il film non riesce comunque a nascondere sotto quello splendido abito, qualche limite, di sceneggiatura in particolar modo, con forzature che spesso stridono: dal personaggio di Guy Pearce (incomprensibile tra l’altro la scelta di questo attore per coprirlo di trucco e fargli interpretare un ruolo di un anziano – sacrificando di fatto il talento dello stesso Pearce -, non bastava prendere un attore più avanti con l’età?), pur interessante, è tratteggiato troppo velocemente, senza concedergli il giusto spazio, e così togliendo un po’ di respiro anche a quello che è il tema più importante e curioso della storia raccontata da Scott, a cui è connesso per certi versi lo stesso personaggio di Pearce: domande esistenziali di vita e di morte, su chi siamo? Da dove veniamo? Ecco che Prometheus prende in prestito il mito dell’eroe greco da cui prende il nome, per andare alla ricerca del Creatore e per porgli quelle domande o assurde richieste, per ottenere in entrambi i casi delle risposte. Che non ottiene, perché nel pianeta in cui atterrerà l’equipaggio troverà sì un alieno creatore ancora in vita, ma ostile, pronto ad uccidere - insieme agli alien (quelli del film del ’79) creati da lui e dagli altri della sua specie – ogni essere umano lì presente, e sulla terra. E attraverso il film il suo regista cerca di mettere l’accento su questo particolare rapporto, tra creatura e il suo creatore: anche come relazione tra uomo e robot, come liberazione chirurgica dal proprio corpo, e andando a scoprire anche significativi risvolti religiosi-cristiani. Senza riuscire pienamente nella missione, perché non supportato a dovere da uno script che a volte scivola via senza lasciare tracce e da una protagonista, Elizabeth Shaw (interpretata da una piuttosto fredda e impalpabile Noomi Rapace, lontana anni luce, lei si, dalla sua predecessore, la Weaver di Alien), senza una vera forza carismatica, che non trasmette coinvolgimento alla sua passione, diventando, anzi, a volte quasi insopportabile.
Elizabeth, unica superstite dell’equipaggio, come la Ellen Ripley di Alien (con tanto di verbale, come messaggio registrato: più chiaro di così!), parte insieme all’androide David, alla volta di un pianeta sconosciuto, da dove provenivano gli alieni creatori, di nuovo alla ricerca di risposte esistenziali e morali. Anche noi partiamo, mossi dagli stessi dubbi. Ma il viaggio di Prometheus termina qui: forse ad annunciare un possibile sequel. E chissà se dopo Alien 2 James Cameron prenderà di nuovo al volo la palla lanciatagli da Scott.
Sicuramente, qualcosa da non farsi sfuggire.
VOTO 7