TOP 10
10. FRANCOFONIA di Aleksandr Sokurov. Sokurov sembra ripartire da dove aveva lasciato il suo capolavoro Arca Russa: nell’immensità dell’immagine, nella vacuità dello sguardo, in questo mare di suggestioni artistiche e storiche. È tuttavia lontano dalla coerenza stilistica di quel film, qui i linguaggi si amalgamano, le inquadrature si affastellano, in un incedere sincopato tra luoghi e tempo, stanze, quadri, presente e passato. Il regista russo non inquadra solamente l’arte pittorica presente al Louvre (in meravigliosi carrelli in avanti che danno una resa plastica ai soggetti dei quadri, quasi uscissero dalla cornice), ma la rende protagonista con evocative soggettive delle statue che osservano chi le osserva; non solo racconta la Storia di uno dei più famosi musei al mondo e di tutti i riferimenti storici che questo possa suggerire, e non solo osa accostare la guerra all’arte, e farci intendere che sono più unite di quanto si possa pensare, ma tra i fotogrammi di Francofonia compare anche, teoreticamente ed intimamente, il cinema: c’è una scena emblematica del film dove viene richiamato un avvenimento storico, e la voice over esprime il desiderio della bellezza di poter vedere come sono andate realmente le vicende: così un “ciak” mette in moto l’azione, dà via alla magia, e rende possibile quel “vedere”. Sokurov crea un film come al solito potente, che pretende tanto dal suo spettatore, ma proprio da questa pretesa trae la sua forza, perché riesce a far nascere emozioni, curiosità, e in tutto questo coinvolgere.
9. VIZIO DI FORMA di Paul Thomas Anderson. Tutto il senso dell’ultimo film di Anderson è nel suo titolo, “vizio di forma”. Il vizio di forma del protagonista Doc, il vizio di forma in cui si perde, placidamente, Anderson: e fa perdere anche noi in un film fluido, annacquato, sospeso, dai colori pastello, dove tutto è ovattato e rarefatto, è lasciato così all’evocazione e alle epifanie. Come Michael Mann, PTA sposta lo sguardo, impone questo spostamento a noi, ci chiede di fluire, e di non restare fermi. Accettare quindi un cinema che come il protagonista di questo film, è un vizio di forma, è inetto, e imperfetto: “come si fa a sapere se si vive per amore di sé o per amore della vita? Non lo può sapere nessuno con certezza. Il limite, intendo, è fluido”, scriveva un altro illustre Mann, e sembra parlare proprio di questo protagonista. Ma allo stesso tempo è potentemente umano, sensibile, e sì, paradossalmente inflessibile, retto, nel fluire al quale si abbandona.
8. THE WALK di Robert Zemeckis. Il film in questione è il film più importante sull’11 Settembre fin ad oggi girato. Eppure narra la storia di Philippe Petit, funambolo francese che tese il suo filo tra le due Torri Gemelle, e le attraversò, sfidando se stesso, l’umanità, e il senso stesso di impossibilità. Ma è proprio questa impresa a definire le coordinate del drammatico evento del 2001: Petit ha donato a quelle torri un’anima. Zemeckis oggi le consegna all’eternità. Le inquadra, le ama, come il suo protagonista, le fa respirare, come due imponenti mostri viventi, le tira a lucido, per cotanta bellezza, e impensabile senso artistico. Quel colpo improvviso, illegale, tremendo, che le annientò precipitandole nella morte, viene controbilanciato da un altrettanto colpo di frode, allo stesso modo inaspettato ed imprevedibile, ma che le innalzò verso il cielo, e verso la vita. Quel filo che Petit tende, è quello che Zemeckis pone nel nostro animo di essere umani, mai ben bilanciato tra il passato di una tragedia immane e il presente di una ferita ancora aperta che genera odio, guerre, e rancori. Quel filo si tende, e un funambolo ci cammina sopra: irridendo la morte, sfidando la sfida stessa come concetto. E cosa più importante di tutte, stando in equilibrio. Quell’equilibrio che ognuno un po’ cercava (e cerca), che ci dona pace. Con meno chiacchiere a riempire quel vuoto, angosciante, ma già pieno di emozioni e sensazioni di per sé, per la potenza delle inquadrature e del 3D che il buon “vecchio” Robert sa offrire, sarebbe stato forse un Capolavoro: resta sicuramente un cinema di livello altissimo, che travalica il grande schermo, per mettere ponti, sottili come una fune, ma percorribili come fossero solide strutture, nella storia, nel nostro animo, nella nostra coscienza. È un’opera d’arte. E l’arte fa questo.
7. BLACKHAT di Michael Mann. 6 lunghi anni. 6 anni da Nemico Pubblico. 6 anni che già a priori rappresentano il peso specifico di un’opera che non potrà, per forza di cose, essere banale, indifferente, o non riuscire a determinare qualcosa, un senso, un obbiettivo, un nuovo affascinante orizzonte per il linguaggio artistico della settima arte. E di fatto è così. Blackhat è l’ennesimo grandissimo film dell’autore contemporaneo più gettonato e forse osannato dalla critica, l’autore che da molto tempo a questa parte sta portando avanti una rivoluzione gentile, forse ancora silenziosa, del cinema. Il digitale spinge Mann a viziare lo sguardo del suo pubblico, ad esaltare l’imperfezione (che sembra dirci non appartenere solamente alla pellicola), come si diceva anche di Vizio di forma; spinge a creare sincretismi e nuove regole. E in fondo a tutto, essenziale e vitale, continuare ad essere maledettamente romantico, intrecciando forse la storia d’amore più struggente della sua filmografia. Non raggiunge le vette di Insider, o dello splendido “paradosso” stilistico su cui si reggeva Nemico Pubblico, ma certamente Blackhat è un film di un altro cinema, magistralmente girato, e con quell’amore unico per l’inquadratura che lo contraddistingue, derivato da una conoscenza rara oggi della forza potenzialmente devastante di questa che è, essenzialmente, la cellula base del linguaggio cinematografico.
6. FOXCATCHER di Bennet Miller. Sorprende ancora in positivo Bennet Miller, dopo lo splendido Moneyball, e si aggiudica in pieno la qualifica di regista tra i più interessanti del momento. La storia vera di Dupont e del suo fedele Mark Shultz, lottare wrestler, mette il regista nelle condizioni di girare un’opera magnifica concorde in modo perfetto alla sua poetica: un cinema votato al perfezionismo e alla cura della messa in scena, alla meticolosa precisione dei movimenti, al riuscire a far vivere a pieno respiro i personaggi che abitano le sue inquadrature. Allo stesso tempo è un cinema che dietro a tutto questo cela, in un silenzio che urla disapprovazione e sconforto, un’umanità stanca, afflitta, e mai scontata, forse proprio per questo tanto vicina: percettibile, tangibile. Foxcatcher è un film sull’America, incarnata nelle sue varie facce, dai due protagonisti, e dal fratello di Mark, Dave, interpretato divinamente da Mark Ruffalo: un’America che esibisce vittorie vuote, che mercifica i propri eroi, ma che sa anche proporre integrità, morale e di affetti. Ma che in ogni caso soccombe sotto il peso della Storia, e della vita.
5. SICARIO di Denis Villeneuve. Quest’opera è la vera, grandissima, sorpresa dell’anno. In Sicario troviamo la visionarietà formale di Michael Mann, e la sostanza narrativa di Fincher. Punto. Non abbiamo solo detto molto, ma tutto. E nonostante, aggiungiamo: c’è un Benicio del Toro che lo ami, per quanto è maledettamente bravo, c’è Roger Deakins che fotografa i confini e il buio (alla lettera), geografici e dell’essere umano, c’è una colonna sonora incalzante che smuove le viscere. E c’è lui, Villeneuve, un regista che cresce a suon di film, e confeziona il suo prodotto più maturo: autorevole ed opprimente, Sicario non è solo il titolo del film o il ruolo del suo protagonista, è la posizione dell’uomo nella società, e verso gli altri.
4. INSIDE OUT di Pete Docter. Ciclicamente la Pixar pesca dal cilindro il capolavoro: quel film che, a scanso di gusti prettamente soggettivi, sa riscrivere un immaginario, sa fissare un preciso momento nel tempo, sa scrivere un nuovo capitolo della storia del cinema di animazione. Lo è stato Toy Story, agli albori, poi Monsters&Co., lo è oggi InsideOut. Che svetta, ed è difficile negarlo, per originalità, acutezza, profondità, messa in scena, e costruzione narrativa, su Up e compagnia degli ultimi anni. Qui si crea qualcosa di nuovo, si dà vita ad un unicum, si pone in essere riflessioni sostanziali, esistenziali, psicologiche. Si lavora su più livelli di ricezione, si arriva a sondare qualcosa di mai sondato, mai affrontato, in un modo del tutto nuovo, geniale, metodico, ma piacevole, esilarante e commovente. “Gioia e tristezza sono nate nello stesso momento, scaturendo da tali profondità del cuore che non si trovano parole che riescano a catturare le nostre complesse emozioni. Questa intima esperienza in cui ogni frammento di vita viene toccato da un frammento di morte, ci può far guardare al di là dei limiti della nostra esistenza. Ci fa guardare in avanti, in attesa del giorno in cui le nostre vite saranno piene di gioia perfetta, una gioia che nessuno ci potrà togliere” (Henri J.M. Nouwen). Inside Out, un film d’animazione, ci ha teorizzato tutto questo. Sembrasse poco.
3. MIA MADRE di Nanni Moretti. Intimo, naturale, semplice, quotidiano. Spiazzante. Disarmante. Il Moretti meno morettiano. Il più atipico, perciò il più interessante. C’è in Mia madre, infatti, molto di più di quanto si possa pensare, o a quanto superficialmente ci si possa fermare. C’è un cinema sapiente, fuori e dentro l’inquadratura, una preziosa capacità di raccontare frutto di scelte registiche di un autore navigato, e di un artista completo. Mia Madre è un film sulla famiglia, un film di rapporti, di individualità che cercano e trovano legami, di esseri umani che si pongono accanto ad altri esseri umani, nella semplicità del gesto, nella profondità esistenziale di tale asserzione. È un film di dolore e gioia, di pianti e risate, è un film che impreziosisce. Ed arricchisce. È un film che sta così in alto in questa classifica perché è l’opera d’arte irrinunciabile, quella necessaria. Moretti è a nudo, in un’intimità che mai ci era stato dato conoscere prima: non è il Nanni Moretti nudo che si mangia la nutella da un barattolo gigante in Bianca. No, questo è il Nanni Moretti nudo davanti al suo cinema, davanti alla sua vita. Abbiamo visto l’attore accanto al personaggio. Un privilegio.
2. IL PONTE DELLE SPIE di Steven Spielberg. Con Spielberg il cinema Vive. In una visione di un film di Spielberg il cinema nasce, cresce e resta vivo dentro di me. E ho la pretesa di credere che accada lo stesso per tanti altri spettatori. È un processo quasi spirituale, una liturgia religiosa, che innesca sensazioni uniche, forse rare. Così è accaduto per questo suo ultimo, immenso film. Se ami il cinema, se conosci il cinema, ami Spielberg, non ci sono vie di mezzo. È impossibile altro. La prima parte de Il ponte delle spie incarna una sapienza di narrazione cinematografica unica in questa arte. Non esiste oggi un narratore d’immagini più grande di Steven. La macchina da presa è dove deve essere, si muove come si deve muovere, e in brevi attimi racconta vite, temi, storie che andrà poi ad approfondire all’interno dell’opera. Il ponte delle spie è un film di guerra: ed è un paradosso importante, perché la guerra raccontata qui è quella fredda: si fonda perciò su dialoghi, su foto, su spie, e su tensioni percepibili, più o meno intense. Il regista americano si mette a servizio della Storia e in un insolito quanto efficace sodalizio con i fratelli Coen alla sceneggiatura, inscena la storia di un protagonista ordinario messo in una situazione straordinaria, più grande di lui: un eroe della quotidianità, “un uomo tutto d’un pezzo”. La Storia vive, perché esistono le storie, quelle con la s minuscola, di persone comuni, sembra dirci Spielberg: persone comuni che cercano di conoscersi prima con se stesse, poi a formarsi un’identità plasmata dagli occhi degli altri. Persone comuni che formano un’America che del loro essere innanzitutto “persone” se ne è dimenticata. Il Donovan protagonista, invece, guarda se stesso, e scopre di essere un giusto, prima che un avvocato e uomo di giustizia; guarda poi la spia, e vede prima di tutto una persona, proprio come Spielberg ce l’ha sapientemente descritta nelle prime inquadrature. Si sceglie, prima di tutto. Sempre. E si cerca di restare fedeli alla scelta fatta. Il cinema di Spielberg è un cinema di scelte. Onorate sempre nel miglior modo possibile, in una dignità artistica senza eguali.
1. BIRDMAN di Alejandro González Iñarritu. Il film evento dell’anno. L’apice inevitabile di questo 2015. Il cinema impone, negli ultimi anni, passi importanti, marchi chiari e indelebili, per la sua storia. Rivoluziona Iñarritu, come aveva fatto, in modo diverso, due anni prima il connazionale e amico Cuarón. Il cinema non ha confini, perché l’immaginazione e la creazione non ce l’hanno. Il cinema (come l’arte) è un linguaggio dal potenziale illimitato, trascendentale. Il regista messicano scrive una storia che riflette su più sensi, e aspira a circoscriverli in un unico piano sequenza, in un’unica continuità temporale, che si abbraccia dall’inizio alla fine. Lo spettatore viene accompagnato, ad ascoltare racconti di vita, sensi di colpa, e redenzioni, a misurarsi egli stesso con la spettacolarità, con la spettacolarizzazione e lo spettacolo, nella costante contaminazione con la realtà: su e giù per i piani del teatro, così tra i livelli del film. C’è un po’ tutto nel film di Iñarritu, dell’immaginario cinematografico e tematico. Per questo c’è soprattutto un’elevata ambizione, portata al suo massimo livello della filmografia del messicano, che l’ha sempre voluta e ricercata. Spesso causandogli imbarazzanti scivoloni. Questa volta no. È l’ambizione stessa che diventa film. È l’apice che regge. Che può permettersi di essere chiamato tale, perché tutto concorre a reggerlo, sia dal punto di vista tecnico (tra l’altro, bellissima la colonna sonora di quasi esclusiva batteria), sia contenutistico. È stato criticato il finale, perché forse banale, e consolatorio. Io l’ho trovato coerente nell’unire i due livelli del film, di realtà e finzione, vita vera e spettacolo, e inoltre squisitamente cinematografico. “Quel finale così assurdo e incoerente che rischia di rovinare tutto. Lì dovete credere a ciò che scegliereste di vedere se foste al posto della protagonista dell’ultima inquadratura. È una sfida. Se non ci credete passerete il tempo a dire: “Ma non ha senso, ma è stupido, ma perché?”. Se invece ci credete, con Birdman spiccherete il volo. A voi la scelta” (Brando Sorbini). Si tratta ancora di scelte. Come per Spielberg. Se Birdman “eleva” e “allarga” il cinema, io scelgo allora di spiccare il volo con questo film, verso nuovi ed illibati territori stilistici, visivi, e linguistici della Settima Arte. È stupido restare fermi; lo è ancora di più, se si decidesse anche di abbassare lo sguardo.