TOP 20 (prima parte)

07.01.2016 15:30

20. MUSTANG di Deniz Gamze Ergüven. È un’opera prima, ed è un gioiellino. Che è bene custodire gelosamente. Il film di Deniz Gamze Ergüven ci appare come il più classico film d’autore, ma la realtà sociale, quella della Turchia di periferia e più arretrata, ci viene raccontata attraverso la costruzione di una storia narrativa, con precisi momenti - principio, peripezie, e conclusione -, con personaggi ben definiti e che ne ricalcano i “ruoli” tipici: assomiglia ad un romanzo picaresco, dove appartiene a Lela, la più piccola delle 5 sorelle protagoniste, il punto di vista, e il ruolo di eroina, che, resasi conto del “destino” delle sorelle maggiori, cercherà di sfuggirne. È un film quindi ben strutturato, ma della quale struttura lo spettatore si dimentica presto grazie ad una mdp che invece inquadra una sinuosità plastica dei corpi di queste giovani donne, la loro naturalezza nello stare insieme, la bellezza stessa delle forme che questi corpi, messi insieme appunto, creano. Un film di estrema eleganza.

 

19. BABADOOK di Jennifer Kent. Babadook è in sostanza l’uomo nero. Sì, quello delle storielle raccontate ai bambini per fargli paura. Su questo soggetto, tutt’altro che potente, viene costruito invece un horror sapiente e robusto, il migliore di questo 2015: l’orrore è Babadook, e Babadook è nelle pieghe della quotidianità dei due protagonisti, una mamma e suo figlio; è nell’ambiguità del loro legame; è nella precarietà psicologica del figlio, e di conseguenza in quella dell’equilibrio di una madre che da sola deve “allevarlo”. Ma Babadook è di più, non solo orrore, è più che orrore, perché diventa il collante tra i due, è la prova, ed è la soluzione. Risulta perciò ovvio di come la regista, Jennifer Kent, abbia preso i cliché dell’horror e se ne sia servita per creare una favola. Sì, una favola: quella storiella dell’uomo nero, che si diceva. Ma che favola!

 

18. 45 ANNI di Andrew Haigh. Ricorda per certi versi il cinema da camera di Bergman. E questo già la dice lunga sulla bellissima opera, dalla messa in scena impeccabile, di Haigh. In sala, sicuramente riferendosi a scene in netto chiaroscuro, uno spettatore l’ha definito “un film buio”. Ed invece mai affermazione fu più azzeccata. Una volta concluso, ti rendi conto di aver visto un film buio: un buio che ha oscurato il passato per troppo tempo, e che ora, venuto a galla, oscura i volti dei due protagonisti (interpretati dai magnifici e magnetici Charlotte Rampling e Tom Courtenay), marito e moglie, e soprattutto oscura il loro amore. Apre crepacci (come quello dove è stato rinvenuto il corpo del vecchio amore di lui), apparentemente lontani, profondamente vasti. 45 anni non sono un anniversario, ma sono un paradosso, e diventano una sentenza. Il buio è ciò che rimane quando si spegne la fiamma dell’amore.

 

17. IL RACCONTO DEI RACCONTI – TALE OF TALES di Matteo Garrone. Un Garrone atipico. Un Garrone coraggiosamente sfrontato firma un fantasy horror macabro. Freddo e distaccato, dove le emozioni faticano ad emergere e farsi largo. Piuttosto l’intento sembra quello di suscitare repulsione, conati, ripugni. Ma è proprio attraverso tutto questo sporco che si leva più forte il senso di speranza, o di valori puliti, quali amicizia e amore. Stratificato e difficile, il film di Garrone è paradossalmente di una pulizia rara, di una precisione millimetrica, essenziale, in ogni aspetto (pensiamo solo alle location della nostra Italia, o ai bellissimi costumi). Dipinge Garrone, e lo fa con la macchina da presa. In un equilibrio fondamentale, e fondativo della sua poetica cinematografica.

 

16. UN PICCIONE SEDUTO SU UN RAMO RIFLETTE SULL’ESISTENZA di Roy Andersson. Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza. No, non è un errore, non ho ripetuto il titolo. Ho semplicemente detto cosa e come è il film. È i tableau vivant di Andersson, le sue inquadrature a camera fissa e montaggio interno. È un’opera costruita per quadri, molto simile in un certo senso a Francofonia di Sokurov: se il regista russo ci mostrava i quadri, Andersson li crea con la macchina da presa, racchiusi nella cornice di un’inquadratura dove anche l’angolo più estremo e remoto, apparentemente insignificante, trova un senso. A tutto soggiace un’ironia sottile che aiuta lo spettatore a guardare con più attenzione e fascinazione, e a fermarsi, per riflettere. Riflettere sull’esistenza. Chi è quel piccione. Chi siamo quel piccione?

 

15. MAD MAX – FURY ROAD di George Miller. Epico, potente. Cinema elevato a potenza, il film di Miller è uno dei migliori parco giochi mai apparso sullo schermo; è una discoteca pulsante di divertimento. È un’elegia sul puro godimento dei sensi, sulla regia che crea cinema da una trama scarna, povera, semplice. Che bellezza.

 

14. WHIPLASH di Damien Chazelle. Un film spiazzante. Grottesco, esagerato, e girato con meticolosità, con cura. Se vi piace la musica non perdetevelo. Qui l’arte è dolore fisico, sacrificio, è una guerra. È sangue. Eccelle J.K Simmons in una prova d’attore di altissima levatura. Sebbene resti ambiguo il messaggio che voglia lanciare, quel che conta è che dal film di Chazelle la musica riesca a passare, ad uscire dal grande schermo, e ad arrivare a far vibrare le corde del nostro animo: è investita del dono dell’eternità, come l’arte tutta, perché assurge all’ordine soprannaturale del miracolo, come ci ricorda Stanislas Fumet in “Processo all’arte”.

 

13. EVEREST di Baltasar Kormákur. È stato una piacevole sorpresa. La storia vera della tragedia che colpì un gruppo di alpinisti o improvvisati tali (clienti che pagando potevano partecipare alla spedizione) il 10 Maggio 1996, viene messa sullo schermo dal regista islandese senza filtri romantici, o epica cinematografica. Ma con un approccio documentaristico, quasi freddo, distaccante, insomma realistico. Ed è qui il paradosso, e quindi la grandezza di questo film: le emozioni, il senso romantico della sfida alla natura, il pathos cinematografico, l’eroismo, nascono ed emergono proprio dalla realtà dei fatti e dalla credibilità della messa in scena. Il trascinamento non ci è indotto per altri mezzi, ma solo con la lucida rappresentazione di quei tragici eventi: noi siamo lì, e se tratteniamo le lacrime è perché tutto ci appare maledettamente sbagliato, troppo grande, e spaventosamente autentico. È l’Everest, d’altronde.

 

12. EX MACHINA di Alex Garland. È fantascienza d’altri tempi, Ex Machina: quella minimale, sottile, sfuggevole, e tagliente. Un cinema da camera al servizio di una storia di fantascienza. La stessa che si poteva piacevolmente individuare in Non lasciarmi di Romanek, pellicola legata a questa da tale Alex Garland, lì sceneggiatore, qui anche regista. E molto dello stile richiama appunto quello del regista statunitense. Il film di Garland è costruito con intelligenza, perché immerso nei canoni del genere ma ben mescolati a quelli dell’horror o meglio ancora del thriller, e questo per risolvere principalmente la questione narrativa; ma procedono mano nella mano con un’idea di realtà e di reale, di fatto costantemente presente, e così pregnante da crescere in verosimiglianza, tanto da collimare e dunque coincidere nella figura del cyborg donna Eva: ed è poi questo l’obbiettivo dichiarato dello scienziato che l’ha creata (interpretato dal sempre più straordinario Oscar Isaac). Ecco allora che lo spettatore si trova nella posizione dello “stagista” Caleb, e come lui viene ingannato: la fantascienza è realtà. È accanto a noi, cammina sulle nostre strade, e ha il volto di una donna, intelligente. Vincitrice.

 

11. SOPRAVVISSUTO - THE MARTIAN di Ridley Scott. Qui varrebbe la massima “Scott non si può discutere”. E non l’ho fatto per Prometheus, da tanti bistrattato, non lo farò certo ora. Anche The Martian è fantascienza, elemento che indica di come questo 2015 si sia mosso tanto, e anche molto bene, in questo genere. Ma di come il cinema, a parere di chi scrive, lo stia facendo ormai da qualche anno: gli esempi di Gravity, o Interstellar sono i più eclatanti. Ecco, il film di Scott, così ad una visione superficiale sembra essere lo spin off dedicato a tale astronauta Mann del film di Nolan: l’attore è il medesimo, infatti (Matt Damon). Ma, meno superficialmente, notiamo connessioni stilistiche tra i due film, e anche profondi differenze: perché differente è il contenuto stesso, dalla sua verosimiglianza al suo messaggio. The Martian è un “survival movie”, è il Castaway del futuro, dello spazio, così Marte è l’isola perduta nell’Universo, e non più nel Pacifico. E tutto si struttura nelle regole di questo genere (la solitudine, la sofferenza, le mancanze, un proprio equilibrio instabile, ma anche l’esaltazione dell’ingegno e della volontà umane, nate dallo spirito di sopravvivenza) che si contamina inevitabilmente dei fascini derivabili dalla fantascienza, quella più canonica, più corretta nello stile e nella messa in scena, come ci si aspetterebbe da Scott, ma anche fresca ed ironica in pieno stile Goddard (sceneggiatore, della combriccola di Whedon). Ma soprattutto quella più “scienza” che “fanta”, tanto da rendere il tutto più appetibile, e più coinvolgente.