TOP E FLOP di Gennaio 2016
30.01.2016 09:43
TOP
- CAROL di Todd Haynes. Avete presente il colpo di fulmine? Quell’innamoramento che avviene al primo sguardo? Ecco, sono bastate poche, pochissime inquadrature per innamorarsi di questo film: inquadrature di una profondità disarmante, ammaliante. Il film con cui ho aperto il 2016 è un’opera di levatura altissima, di una perfezione rara, perché non fredda, ma commovente, trascinante, e paradossalmente, delicata.
- L’INTERPRETAZIONE DI LEONARDO DI CAPRIO IN REVENANT. Parla poco, ma al contempo grugnisce, sbava, soffoca grida di dolore, e a volte le lascia uscire; poi striscia e arranca, tra la foresta, al freddo, nello sporco; mangia fegato crudo, vomita, e lo rimangia. Soffre, piange, combatte, e ama: con gli occhi soprattutto, è chiaro, perché non parla. Combatte con un orso. Sì, un orso. Il corpo dell’attore è schiacciato: è lasciato morire, nella materica concezione di uno sguardo che Iñárritu sceglie di adottare per il proprio film. Ma rinasce. Per l’Oscar, si intende. Questa volta sì, che deve fare di più?
- LA SCENEGGIATURA DI AARON SORKIN PER STEVE JOBS. Sarà distaccante nella sua algida perfezione, sarà poco emozionante per le sue sovrastrutture, arriverà poco al cuore, bloccata com’è a muoversi nella testa, del suo autore, e quindi nostra; ma sprigiona sentenze di qualità cinematografica impossibili da non notare, e impossibili da non invidiare. Poi la si può pensare come dicevo, ma scrivere così, è Scrivere.
FLOP
- LA CORRISPONDENZA di Giuseppe Tornatore. Dopo quel gioiello che era La migliore offerta, mi aspettavo che il buon Tornatore si mantenesse su quei standard, su quei arditi e voluttuosi intrecci. Invece no, peccato. La corrispondenza mette sul piatto un soggetto interessante, non originale è vero, ma tuttavia non privo di rimandi o intersezioni etiche e filosofiche: purtroppo non è “creato” e lavorato come dovrebbe, e risulta poco presentabile. Rimane qualcosa di debole, monotono, prevedibile, e soprattutto irreale. Non buttiamolo completamente via, qualcosa funziona, difficile che a tratti non riesca a trasportati, ma da Tornatore ci si aspetta di più. Molto di più.
- I DIALOGHI IN MACBETH. Adattare è fondamentale. Se non lo fai, “svacchi”, dicendolo volgarmente. Se metti gli attori in castelli veri, terre vere, paesaggi veri, con altri attori veri, in carne ed ossa, in situazioni vere, o comunque verosimili, ad usare oggetti veri, a mangiare e bere cose vere, a scatizzare fuochi veri, poi non puoi farli parlare come se leggessero un componimento in versi, e come se fossero sopra il palco di un teatro. Se tutta la confezione è di bellissima fattura cinematografica, i dialoghi non possono essere teatrali. Rompi la magia. E il cinema è magia. Il cinema è un’illusione vera, eh sì, vera. Questo è il grande paradosso della sua bellezza.
- LA SECONDA PARTE DE Il piccolo Principe. Non è un brutto film: si regge, come c’è da immaginarlo, sulla potenza (eterna) del romanzo. Quindi può funzionare, e l’intento che cercava è sicuramente trovato e riuscito. Ma il fastidio nasce quando nella seconda parte la trama, la narrazione, cercano in tutti i modi di conformarsi con il più classico prodotto di animazione: addentrandosi nell’avventura, promuovendo l’azione sterile, e tutto con i soliti cliché, le solite magagne e le solite soluzioni. Non ci deve essere per forza tutto questo movimento di peripezie. Poteva essere o tentare di essere un cinema più autoriale, da camera, restando lì, intimamente, in quel quartiere, tra quelle due case, raccontando quelle due vite, quell’amicizia, tanto strana e particolare, quanto bella e necessaria. Si esagera, probabilmente per far divertire i bambini. Ma alla fine, gli si serve sempre la solita minestra.