GLI ALTRI 7 DEI TOP 10
10. Il capitale umano di Paolo Virzì. Liberamente ispirato dall’omonimo romanzo di Stephen Amidon, Il capitale umano è un film italiano di alto livello (a volte capita, grazie), cupo, quasi malinconico, freddo, distaccante: caratteristiche che sono la vera forza dell’opera di Virzì, regista che riesce ancora a stupirci. Il capitale umano è un concetto impegnativo, un paradosso costruito tra l’esistenza e l’economia. Così, immersi nella nebbia della Brianza, i punti di vista multipli, con il quale ci viene raccontata intelligentemente e armonicamente la storia, convoglieranno nello stesso medesimo: si può valutare la vita di una persona con i soldi? Virzì costruisce una tragedia mascherata da commedia, ma che di fatto della commedia ha solo i tipi, le maschere, i personaggi stereotipati. Si ride: ma è “umorismo” pirandelliano.
9. Devil’s Knot-Fino a prova contraria di Atom Egoyan. Un grande film che indaga la verità. Senza volerla svelare. Sono le molteplici facce che questa assume che interessano al regista, le sue pieghe tra la trama di una vicenda, le sue piaghe nell’animo delle persone che tentano di ricercarla e trovarla. È il loro modo per ricucire le ferite subite, inferte da un destino incontrollabile, crudele: è di questo che ci parla il cinema di Egoyan, di personaggi segnati, lacerati nell’animo, che tentano di curarsi e di anestetizzare il dolore, attraverso rituali quotidiani, ricerche morbose, passionali. Per questo motivo al regista interessa i volti dei suoi protagonisti, i loro sguardi, ed è per lo stesso motivo che il film confeziona grandi prove d’attore. È un’opera davvero potente, in particolare nei primi minuti; si perde un po’ strada facendo, ma resta forte dentro la sua logica, nella sua disanima dei fatti realmente accaduti - la sensazionale per quanto atroce storia vera del famoso caso denominato “West Memphis Three” -, e dentro la mente e l’animo dello spettatore.
8. The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese. Un grandissimo Scorsese si rinnova, si adatta ai tempi, e sconvolge, firmando un film imponente, eccessivo, carico: come per chi pratica sport estremi, così per il regista americano classe 1942 il limite è sempre un po’ più in là. The Wolf of Wall Street è un contenitore senza pareti, un recinto senza barriere, dove dentro ci trovi di tutto: carico di tante cose, esagerato non solo nella regia del suo autore o nella prova d’attore mostruosa di Leonardo di Caprio, ma anche e soprattutto nei contenuti, in quello che racconta, in quello che mette in scena. Poteva sicuramente provare a dire di più, per quanto goliardica la vita del Lupo di Wall Steet non può coinvolgere se non ad un livello superficiale. Ma sebbene non scava, la superficie si estende in modo illimitato: tutto c’è, tutto esplode, e implode. Resta un’opera cinematografica di sontuosa magniloquenza.
7. A proposito di Davis di Joel & Ethan Coen. La ciclicità è la caratteristica cardine dell’ultimo film dei Coen, sapienti ed eccelsi narratori nel cinema moderno; non la musica, come potrebbe sembrare; la musica è piuttosto lo stimolo narrativo dell’opera. Perché andando avanti con la visione del film ci rendiamo conto che il protagonista della storia vive con la musica e non per la musica; e di fatto si perde in un rituale fatto di stesse cose, stesse facce, stesse situazioni, che non trovano sbocchi, soluzione: tutto inizia dove finisce. E non basta un certo Bob Dylan, giovane musicista che muoveva i primi passi in quel periodo raccontato dal film, scorto velocemente nelle ultime inquadrature, ma udito assolutamente bene per la riconoscibilità della sua musica, per far intendere uno stravolgimento, un colpo di scena: un cambiamento. Llewyn è un altro perdente malinconico nella galleria dei personaggi creati dai Coen.
6. Locke di Steven Knight. Ho apprezzato questo regista già l’anno passato con Redemption. Non solo si è confermato autore interessante, ma si è superato, osando, e vincendo la scommessa: come capita a chi possiede quel qualcosa in più. Locke è agli antipodi di Boyhood: se il film di Linklater è stato girato in un decennio, questo in qualche settimana. Se l’uno è un film corale, che vive e pulsa delle relazioni “visibili” (con se stessi, e tra loro) dei vari personaggi, Locke è costruito tutto dentro un automobile, e con un solo protagonista, che interagisce con altri solo attraverso un telefono cellulare. Basta questo per capire quanta potenza cinematografica soggiace a un progetto del genere; quanto Locke stia qui a confermarci, come ha già fatto Boyhood in modi diversi e opposti, l’illimitato orizzonte della Settima Arte. Esercizio di scrittura praticamente magistrale e perfetto, interpretazione sublime di Tom Hardy che racchiude nelle sue parole e nel suo volto dramma e commedia, dolore e gioia, Locke è un film minimalista che racconta del senso di colpa, e del coraggio di fare scelte, e accettare le conseguenze di tali scelte. Parla di senso di responsabilità. Avvincente come il più classico dei thriller, il film di Knight è la vera sorpresa dell’anno: perché, senza scadere nel moralismo più retorico o spicciolo, lancia insegnamenti forti, fondamentali, perché fondativi della vita (non a caso Ivan Locke getta fondamenta di calcestruzzo, per la costruzione di palazzi).
5. Snowpiercer di Bong Joon-ho. Concentrare il mondo in un treno. E tutto ciò che del mondo fa parte e ne deriva: un microcosmo di società umana diviso in classi sociali. Questa la visione distopica dell’eclettico regista coreano. Nell’ultimo vagone i poveri, gli emarginati, gli abbietti, i sacrificabili. Andando avanti verso la testa del treno, quelli che diventano necessari, fino a giungere ai primi, i ricchi. In cima, naturalmente, il capo, figura simil divina, perché il mondo è tutto lì, in quel treno. Inevitabile allora la rivolta dei poveri: rivolta che è ricerca di un senso e di una verità, di un arrivo, che in fondo è una nuova partenza. È intelligente Snowpiercer nella misura in cui riesce ad essere appassionante, divertente e fortemente drammatico, quanto maledettamente reale. Ti prende, perché ti riguarda. Paradossalmente riguarda te: per questo motivo Snowpiercer fa male, più di quanto si possa pensare accostandosi ad un blockbuster. È un gran bel film, scritto bene, diretto con astuzia e maestria e interpretato da attori famosi che in questo contesto perdono l’aureola e non si riconoscono come tali. Sembrano persone qualunque: in tal senso da citare una grande, per quanto irriconoscibile e azzeccata, Tilda Swinton.
4. Grand Budapest Hotel di Wes Anderson. Il più grande Wes Anderson. E questo già dice tutto del livello assoluto di questo film. Dentro quest’opera c’è tutto il suo mondo e il suo modo di pensare, di intendere il cinema, e l’Arte. Il suo discorso e la sua visione della realtà, storta e iperbolica, sono portati alle massime conseguenze, verso le derive più appassionanti, ed emozionanti. Meno sofisticato del precedente Moonrise Kingdom, è proprio nella semplicità, anche del messaggio, che Grand Budapest Hotel ha la sua forza. Quando la retorica e la banalità diventano valori, perché inserite nel contesto giusto. Wes Anderson può tutto, perché nel suo mondo tutto torna. Sempre, in modo perfetto.