SILVER CASE di Christian Filippella

13.06.2012 17:33

Presentato in concorso alla prima edizione del Tolentino International Film Festival - festival che si è proposto di dar luce a tutto un cinema indipendente privo di visibilità (soprattutto distributiva), ma di qualità - Silver Case di Christian Filippella, direttamente dagli Stati Uniti, è stato sicuramente tra i migliori prodotti che ho potuto visionare. Privo di visibilità. Ma di qualità.

Fin dalle prime inquadrature si intuisce l’ispirazione del regista verso tutto un mondo cinematografico che è rappresentato al suo apice da un autore particolarissimo e geniale, che è Quentin Tarantino. Silver Case richiama alla mente Pulp Fiction. Questo non costituisce un limite da accezione negativa, cioè quando spesso si associa a qualche film gli appellativi “copia”, “plagio”, ecc..., ma piuttosto un limite, in quanto soglia da valicare: base da cui partire, approdo dell’originalità a cui arrivare. Passando per un processo di reinvenzione. Da un punto di vista tematico, soprattutto.

Un cinico e spietato produttore di Hollywood, detto il “Senatore”, vuole cercare di eliminare il suo diretto concorrente, e per farlo è disposto a qualsiasi cosa. Ma la mancata consegna di una valigetta d’argento dal contenuto misterioso sarà la molla che farà scatenare una serie di eventi imprevedibili, che coinvolgerà una moltitudine di personaggi. “Estremi, folli, spregiudicati”, come li ha definiti lo stesso regista. Perché il film, ridendo tragicamente e piangendo comicamente, tenta di portare avanti una tagliente e coraggiosa presa in giro del sistema Hollywood, “della follia che governa l’industria del cinema americano”. Ma Filippella allarga il suo discorso, rendendolo addirittura più universale, parlando della “follia morale” che governa il mondo, del caos morale. Ci sono due dialoghi piuttosto esplicativi che nel film evidenziano in maniera chiara, intrigante e con forza, questo concetto. All’inizio, in un dialogo che vede coinvolti il “Maestro”, altro personaggio fondamentale e decisivo della vicenda, insieme a due donne. La questione verte sul tema del relativismo morale: il Meastro cerca di spiegare alle sue due interlocutrici che commettere un omicidio può essere tanto grave e amorale quanto una persona che parla al telefono mentre guida, perché potrebbe causare anche in questo apparente innocuo caso la morte di una persona, o comunque conseguenze “gravi”; si arriva dunque ad affermare “Non viviamo in un una società morale. A chi ti sta accanto non importa niente di te”. Il dialogo per quanto in principio ci faccia sorridere, come alle due donne che ne partecipano, in seguito, attraverso argomentazioni sempre più approfondite della tesi posta in questione, ci insinua riflessioni importanti: e i risolini, lasciano posto a visi più seriosi. Lo stesso concetto viene ribadito successivamente in un altro dialogo, condotto in linea “tarantiniana”, e molto riuscito, in macchina, tra i due personaggi di colore: “Oggi ognuno si fa gli affari suoi”.

È importante e non banale, quindi, quello con cui Filippella ci vuol far confrontare. Pur trattandosi di un film indipendente, Silver Case riesce a tenere botta molto bene, e a testa alta, nei confronti di produzioni dai costi esorbitanti. E forse il finale arriva anche un po’ troppo presto. Qualche minuto in più, per cuocere meglio tutta la carne che riesce a mettere nel fuoco, sarebbe servito. Così, forse, qualcosa in qua e in là, si è bruciata.

VOTO 7